La madre di tutte conferenze: Placentia Bay

OSSIA l’abdicazione dell’impero britannico in favore dell’“impero” americano

Nel corso della seconda guerra mondiale, gli Alleati ebbero bisogno di riunire a più livelli i comandi politici e militari per sviluppare strategie, definire scopi immediati e futuri, programmare aiuti e, infine, decidere le sorti delle nazioni sconfitte.

Le conferenze più importanti furono, almeno secondo il mio giudizio, le seguenti cinque:

  1. quella di Mosca (29 settembre – 1 ottobre 1941), la quale vide la partecipazione di Stalin, Churchill e Harriman (l’ambasciatore itinerante di Roosevelt). In tale occasione furono stabiliti i termini del supporto logistico alla Russia.
  2. quella di Casablanca (14 – 24 gennaio 1943), cui presero parte Churchill, Roosevelt, Giraud e de Gaulle. Qui si concordò, assieme alle campagne italiana e francese, il principio della “resa senza condizioni.
  3. quella di Teheran (28 novembre – 1 dicembre 1943), alla quale aderirono Churchill, Roosevelt e Stalin. Tale incontro diede vita alla cosiddetta “Dichiarazione delle Quattro Potenze”, sovente nota con il nome di “Teoria dei quattro poliziotti“(Cina, Gran Bretagna, USA e URSS). Costoro avrebbero dovuto preservare l’assetto post-bellico concordando, fra innumerevoli discussioni, anche il futuro della Germania de-nazificata, dei Paesi minori, dell’Austria, dell’Italia (all’epoca ancora un attore belligerante) e, in ultima istanza, dei Balcani. Non meno significativi risultavano essere i colloqui sulle date per l’apertura del “secondo fronte” che, per il Segretario Generale del PCUS, restava la colonna portante di ogni accordo.
  4. quella di Yalta (4-11 febbraio 1945) fra Churchill, ormai un triumviro inesorabilmente in declino; Stalin, votato a fagocitare un Roosevelt sempre più stanco e cagionevole. In questa circostanza vennero definiti i piani per l’invasione e la suddivisione della Germania, lasciando ai soli russi il compito di prendere Berlino. Il leader americano concesse inoltre che la Bielorussia e l’Ucraina, repubbliche costituenti dell’Unione Sovietica, venissero considerate membri singoli nell’Assemblea dell’ONU. Aspetto non meno rilevante, furono presi provvedimenti per una formula di amministrazione fiduciaria (trusteeship) che rivitalizzasse i vecchi mandati della Società delle Nazioni, nonché le ex colonie nemiche. Si stabilirono infine le condizioni per l’entrata in guerra del Cremlino contro il Giappone.
  5. quella di Potsdam (17 luglio – 2 agosto 1945), dove si incontrarono Attlee, Stalin e Truman. Churchill, che aveva perso le elezioni da lui “chiamate” con scarsa lucidità, fu il vero convitato di pietra. È bene inoltre sottolineare che il dittatore georgiano scoprì, nel neo-eletto Harry Truman, un ostacolo assai meno malleabile rispetto al moribondo Roosevelt.
    Qui vennero discussi gli accordi relativi alla decentralizzazione, alla demilitarizzazione e alla democratizzazione della Germania. Malauguratamente per quest’ultima, si decise anche lo spostamento del confine con la Polonia lungo la linea dell’Oder-Neiße, decisione che privò i tedeschi di una fetta consistente del loro territorio e, al tempo stesso, creò un vero e proprio esodo di migliaia di profughi che si riversarono nella nascitura Bundesrepublik (RFT).

Cinque momenti di alta diplomazia, di politica e di decisioni strategiche da cui sarebbe emersa non soltanto la nuova Europa, ma quel contrasto fra sistemi ideologici conosciuto come Guerra Fredda.

Nessuna di queste però avrebbe potuto avere luogo, con ben altre conseguenze sull’andamento del conflitto, senza un incontro segreto tra due figure uniche per il loro tempo: i summenzionati Franklin Delano Roosevelt, 32° Presidente degli Stati Uniti d’America che, mediante l’ambizioso “New Deal”, aveva risollevato il Paese dai disastri della “Grande Depressione”; il conservatore Winston Spencer Churchill, della famiglia dei Duchi di Marlborough, un vecchio leone che aveva combattuto nelle maggiori guerre dell’impero a cavallo fra i secoli XIX e XX, ora chiamato a reggere le sorti dell’Inghilterra nella sua ora più buia. Due statisti lungimiranti, membri di aristocrazie diverse l’una dall’altra ma, in egual misura, politici scaltri e raffinati.

Dopo l’approvazione del Lend-Lease Act questi due personaggi, entrambi uomini “di mare” in virtù dei loro trascorsi di carriera[1], compresero che un simile provvedimento varato per sostenere Londra senza coinvolgere direttamente Washington non poteva applicarsi senza linee chiare, precise e lungimiranti. Roosevelt era ben conscio del fatto che il Commonwealth costituisse il principale baluardo contro il dilagare delle dittature fasciste, mentre Churchill sapeva che, senza un razionale scambio di garanzie, tale disposizione non poteva recare giovamenti immediati al Regno Unito.

L’intesa doveva perciò essere “under the rose–sub rosa– vuoi perché la Gran Bretagna era nel pieno delle ostilità, vuoi per evitare che gli isolazionisti americani potessero venirne a conoscenza, creando così ulteriori grattacapi in una società orientata al consumismo invece che a un’economia bellica.

Si optò quindi per incontrarsi in una località che, tanto il conflitto quanto il clima unico celavano da occhi indiscreti: si trattava dell’isola di Terranova e, più precisamente, delle acque intorno ad Argentia, porto affacciato sulla Placentia Bay. Proprio qui, nel periodo compreso fra il 9 e il 12 agosto 1941, si riunirono i rappresentanti delle ex colonie ribelli e dell’antica madrepatria, le une forti della propria ricchezza economica, industriale e materiale, l’altra indebolita da una guerra combattuta quasi trent’anni prima da cui non si era mai ripresa[2].

È bene sottolineare quanto i due politici avessero intrattenuto, sin dall’inizio delle ostilità, una fitta corrispondenza epistolare che si spingeva ben oltre le comunicazioni ufficiali, ciascuna contraddistinta dalla formula “A Former Naval Person to the President” (un vecchio marinaio al Presidente). Fu però dopo quest’incontro che il rapporto tra i leader, invero contrassegnato dal rispetto e dalla stima reciproca, consolidò la relazione speciale che da sempre lega i due Paesi, affini per lingua, tradizioni, religione e storia malgrado il precedente rivoluzionario.

Volgendo uno sguardo alla situazione strategica, è chiaro che i problemi che affiggevano la Gran Bretagna non erano legati al solo ambito militare: nonostante le vittorie collezionate dai nazisti in Francia e in Scandinavia, gli inglesi erano scampati a un’invasione che all’epoca (estate 1940) sembrava cosa di giorni; avevano inoltre stroncato gli attacchi italiani in Nordafrica, dove il maresciallo Graziani era stato ricacciato al di là della piazzaforte di Tobruk; intanto la Royal Navy manteneva salda la propria presa sul Mediterraneo, colpendo la Regia Marina mentre questa era alla fonda nella sua base navale più prestigiosa, Taranto. Un episodio ben studiato, migliorato e portato a compimento il 7 dicembre 1941 dalla Marina Imperiale Nipponica.

Si trattava dunque di una situazione in perenne equilibrio fra vittoria e sconfitta, benché le percentuali di quest’ultima aumentassero progressivamente: l’ingresso dei tedeschi nei Balcani a sostegno dell’improvvido alleato aveva alterato il quadro strategico a sfavore di Londra, precludendole non solo il controllo del Mar Egeo e dell’isola di Creta, ma avvicinando il nemico all’importantissimo Canale di Suez; intanto, sotto i colpi di una Wehrmacht vittoriosa e all’apparenza inarrestabile, l’Armata Rossa indietreggiava fino a Mosca necessitando di supporto logistico. Rifornimenti ai quali l’Inghilterra poteva provvedere, ma non in maniera sostanziale e continuativa. Dopotutto era il medesimo tessuto industriale a impedirglielo: se è vero infatti che i dominions le assicuravano le materie prime indispensabili, le esigenze belliche diventavano giorno dopo giorno più pressanti, mentre le linee di approvvigionamento risultavano perennemente a rischio. Per di più, le carenze di manodopera e il decentramento industriale avevano reso indispensabile l’apporto degli  Stati Uniti.

Per quanto concerne l’aspetto finanziario, il Commonwealth era entrato in guerra con circa 4 miliardi e mezzo di dollari in oro e in investimenti, cifra piuttosto alta per l’epoca. Tale ammontare poteva essere accresciuto mediante un incremento nell’estrazione del nobile metallo, in particolar modo in Sud Africa, dove però la nutrita minoranza boera stava causando ritardi e disordini. Vi era poi la vendita di prodotti di lusso quali whiskey, lane speciali, argenti, ceramiche et similia, merci che in quel momento venivano trascurate in favore delle esigenze militari.

In seguito furono reperiti altri 2 miliardi di beni, ma le spese per il materiale bellico stavano scavando enormi voragini nell’economia britannica, specie da quando i Paesi neutrali da cui venivano acquistate le materie prime iniziarono a privilegiare il pagamento in dollari, mentre il sistema dei convogli veniva sistematicamente attaccato dagli U-Boote e dalle navi di superficie.

Il Lend-Lease Act arrivò nel marzo del 1941 come un dono del cielo. Gli statunitensi, guidati con mano d’acciaio e voce suadente da Roosevelt (definito dai suoi stessi connazionali “The Machiavellian”), beneficiarono enormemente dell’accordo incamerando grandi quantitativi di oro sudafricano, garantendo in cambio un flusso costante di cibo, petrolio e mezzi di varia natura.

All’insegna della frase “We must be the great arsenal of Democracy” (“Dobbiamo essere il grande arsenale della democrazia”), Washington rifornì inglesi e sovietici di ciò di cui necessitavano, dalla carne in scatola alle navi da guerra. I cacciatorpediniere della Flotta dell’Atlantico arrivarono persino a scortare i mercantili del Commonwealth al largo dell’Islanda, dove venivano affidati alla tutela della Royal Navy. Malauguratamente per il Capo di Stato, l’opinione pubblica preferiva che l’industria continuasse a produrre tostapane e automobili invece dei carri armati, ed egli non poteva entrare in guerra senza l’appoggio popolare.

Churchill, da vecchio lupo di mare e abile politico qual era, sapeva benissimo che l’unica salvezza dell’impero risiedeva negli Stati Uniti, cioè nelle vecchie colonie ribelli. Stalin infatti avrebbe potuto chiedere un armistizio vedendo la mala parata, lasciando il Regno Unito da solo e con un’India attraversata da pericolose velleità indipendentistiche. Rischiava perciò di trovarsi con una Germania vincente, espansa ad Est al punto di poter accedere ai pozzi petroliferi del Caucaso e, aspetto non meno allarmante, con la strada aperta verso l’Iran e i suoi giacimenti. Un’Asse ringalluzzita e ricca di risorse, uomini da arruolare, industrie ed esperienza bellica rendeva assai plausibile un’invasione della Homeland.

Egli non poteva escludere una débacle della Russia. Aveva quindi bisogno degli Stati Uniti, a qualunque costo, perché se la Gran Bretagna avesse fronteggiato i suoi avversari in totale autonomia sarebbe stata sconfitta in una guerra di consunzione, preludio di una crisi istituzionale senza precedenti. Era anche consapevole del fatto che, malgrado l’apparente disponibilità degli USA, questi avrebbero guardato al loro tornaconto. Gli Stati-nazione non hanno amicizie, ma interessi, una condotta testimoniata dall’assorbimento dell’oro di Pretoria, dal leasing delle basi navali nelle Americhe[3] e da un consistente technology transfer.

Ed ecco perché si orchestrò, nella massima segretezza, un meeting bilaterale dall’altra parte dell’Atlantico, non senza il rischio che qualche U-Boot potesse localizzarli o che una spia segnalasse l’insolita presenza di una nave da battaglia, con annessa scorta, in una baia sperduta di Terranova[4].

Churchill non ignorava che, chiedendo un incontro con Roosevelt, sarebbe stato accolto alla stregua di un postulante che si reca dal parente più ricco per ottenere sostegno, pronto a vendere la primogenitura non in cambio di un piatto di lenticchie, bensì di aiuti consistenti. Li avrebbe ottenuti, ma a un prezzo carissimo: sul ponte dell’Augusta, l’Inghilterra non perse unicamente la propria posizione predominante, ma l’impero stesso. Chissà se il Premier inglese se ne rendesse conto. Io credo di sì. Egli apparteneva a quella ristretta cerchia di condottieri che, pur di uscire vincitori, avrebbero accettato qualsiasi sacrificio come Napoleone, Giulio Cesare, Lucio Cornelio Silla o Tamerlano.

Era stato chiamato, in quello che ancora oggi viene considerato il tramonto della vita, a salvare una Nazione la cui credibilità era stata offuscata dalla leggerezza di Neville Chamberlain, così come da quella di tanti altri compatrioti seduti sugli scranni del Parlamento. Doveva, in parole povere, raccogliere le rovine di un’avventura militare preparata come se la Grande Guerra non fosse mai finita, pronto a dare tutto se stesso “per il Re e per la Patria”.

Si preparò al viaggio con entusiasmo e, quando il maltempo rallentò la navigazione perché i cacciatorpediniere potessero tenere il passo della Prince of Wales, fu sempre lui a ordinare di lasciarli indietro per far procedere la corazzata alla massima velocità.

Giornalista e politico spregiudicato, egli aveva calcato i sedili verdi dei Comuni per decenni. Aveva peraltro combattuto nel secondo conflitto anglo-boero dove, caduto prigioniero degli afrikaner, era evaso rocambolescamente al punto da fare dell’intera esperienza un best seller. Fra il 1914 e il 1915 aveva gestito con piglio fermo l’Ammiragliato e, una volta rassegnate le dimissioni dopo il disastro di Gallipoli, si era arruolato nell’esercito con il grado di tenente colonnello dei Royal Scots Fusilers. Poi, nella primavera del 1917, era stato scelto in qualità di Ministro degli Approvvigionamenti grazie al forte impulso dato allo sviluppo dei “tanks, accelerando l’adozione di quel mezzo che vent’anni sarebbe divenuto la quintessenza del Blitzkrieg: il carro armato.

Era la “Cassandra” dei Tories: da tutti detestato (meno che dagli elettori della sua constituency), aveva previsto con largo anticipo tutto quel che sarebbe accaduto nello scacchiere europeo, venendo in seguito richiamato da Giorgio VI per tirare il Commonwealth fuori dai guai.

La Prince of Wales si presentò all’incontro con la propria scorta. Nelle sue memorie, Churchill la descrive con le verniciature pezzate dalla mimetizzazione, macchiate dalla permanenza in mare e dai lunghi pattugliamenti bellici. Un contrasto notevole rispetto all’Augusta e ai suoi destroyers[5], perfettamente curati, lucidi e brillanti.

Nei giorni in cui si confrontarono, i due statisti impararono a conoscersi l’un l’altro, visto che fino ad allora si erano riuniti soltanto in occasioni formali. Si accordarono sulle modalità degli aiuti destinati alla Russia, alla Gran Bretagna e sul programma Lend-Lease.

Uno dei risultati più notevoli fu sicuramente quello di aver gettato le basi per un’organizzazione sovranazionale più efficace della Società delle Nazioni[6]. Ad oggi la conosciamo con il nome di ONU, un organismo che, nondimeno, dimostra ogni giorno di più la propria incapacità di aggiornarsi.

La fine della conferenza fu invece sancita da una cerimonia suggestiva: un servizio religioso tenuto sulla poppa della nave da battaglia. Stessi inni per i marinai delle due nazioni, stessa lingua, principi e testo sacro: la Bibbia di re Giacomo, edizione del 1611.

La vittoria, se intesa come risultato di uno scontro fra intelligenze, necessità politiche e volontà fu appannaggio di Churchill, il quale ottenne tutto ciò che aveva richiesto: l’appoggio americano e l’impegno nel “wage war but not declare war, cioè “fare la guerra senza dichiararla”. Una vittoria di Pirro, come vedremo più in là, una di quelle che lo scaltro Roosevelt avrebbe concesso volentieri. Questi sapeva che, prima o poi, i meri fatti bellici e l’arroganza dell’Asse avrebbero trascinato gli USA nella contesa. Bastava solo aspettare. Ecco perché a est fece scortare i convogli alleati dal naviglio antisom, nell’attesa di un errore irrecuperabile ad opera degli U-boote, mentre a ovest impose delle restrizioni pesantissime a un Sol Levante invischiato nel pantano cinese.

Mentre l’Augusta scivolava lentamente sul pelo dell’acqua, Churchill lo guardava dallo specchio di poppa della corazzata.

Vittoria, sì, ma a che prezzo? Forse il Premier britannico aveva compreso di aver salvato l’Inghilterra dal disastro, ma che per farlo ci sarebbero voluti sangue, fatica, lacrime e sudore. Capiva anche che, vincendo questa guerra, l’impero sarebbe finito. Stava guardando il neonato successore, lo Stato emerso dalle province ribelli. Una vittoria dal sapore amaro, perché Roosevelt si assunse l’onere di ragionare direttamente con Stalin, mettendo in secondo piano gli altri “policemen”.

Nel maggio del 1945, al momento della capitolazione del Terzo Reich, il 75% di ogni bene circolante in Europa era stato prodotto negli USA e spedito ovunque servisse in abbondanza. Nel teatro del Pacifico, lo sforzo bellico era stato sostenuto in massima parte da Washington, il cui intervento aveva impedito l’invasione dell’Australia dopo la caduta delle Filippine e, aspetto non meno rilevante, l’invasione del Raj indiano.

Uomo concreto e lucido analista, Churchill sapeva di aver “mollato” la primogenitura chiedendo aiuto ai cugini d’oltreoceano. In ultima analisi, l’impero costruito dai vari Pitt, Peel, Gladstone, Disraeli e Palmerston stava volgendo al crepuscolo, ma la monarchia dei Windsor e l’Inghilterra sarebbero sopravvissuti. E questo era ciò che contava.

Dal canto suo, il presidente americano non avrebbe avuto vita facile. Doveva condurre una lotta serrata con il Congresso, dove non godeva sempre della maggioranza, e con un’opinione pubblica dichiaratamente isolazionista. Quando infatti iniziò a “saccheggiare” le forze armate a vantaggio di Londra e Mosca, lo fece nella segreta convinzione che non ne avrebbe avuto bisogno a breve.

Forse aveva sottovalutato il precedente storico della guerra russo-giapponese, sicuro di potersi permettere un intervento tardivo come accaduto nel 1917. Niente di più sbagliato.

Il 31 ottobre 1941, il cacciatorpediniere USS Reuben James (DD-245) fu attaccato dal sommergibile tedesco U-552. Colpito da un siluro intorno alle ore 08:34, l’ordigno causò la drammatica esplosione della santabarbara, spezzando la nave in due tronconi e causandone il rapido affondamento.

Appena trentotto giorni dopo, nella rada di Pearl Harbour la dura realtà si sarebbe fatta strada.

Aldo Ciappa

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Roosevelt era stato Sottosegretario alla Marina dal 1913 al 1919, mentre Churchill aveva rivestito il ruolo di Primo Lord del Mare in entrambe le guerre mondiali (1911-1915, 1939-1940).

[2] Il Presidente USA arrivò a bordo dell’incrociatore pesante USS Augusta, mentre il Premier britannico compì la traversata a bordo della corazzata Prince of Wales (la stessa che meno di sei mesi dopo sarebbe stata affondata dagli aerei nipponici al largo della Malesia) e la sua scorta di cacciatorpediniere.

[3] Si tratta del famoso “Accordo delle cacciatorpediniere”, precursore della legge Affitti e Prestiti.

[4] Sir Alan Brooke scrisse che il Primo Ministro era sul piede di guerra, augurandosi addirittura di intercettare qualche nave tedesca per poterla attaccare.

[5] Cacciatorpediniere.

[6] Il documento ivi redatto venne ribattezzato  “Carta Atlantica”. A causa del nome scelto, esso risultava sin dal principio ostico alla Russia.

  • Churchill.W., History of English speaking Peoples;
  • Churchill.W., The Second World War;
  • Ciappa.A., Il Trattato Navale di Washington, con un occhio all’Estremo Oriente, Storia Contemporanea – Prof. Mori – Facoltà di Scienze Politiche, Roma, 1/7/1976 (tesi di laurea);
  • Brooke.A., Alanbrooke War Diaries 1939-1945;
  • Di Nolfo.E., Storia delle Relazioni Internazionali;
  • Reid.P., Manchester.P., The Last Lion: Winston Spencer Churchill: Defender of the Realm 1940-1965;
  • James.L., Churchill and Empire. Portrait of an Imperialist;
  • Lukacs.J., Churchill. Visionario, statista, storico.

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