Ha inizio la battaglia delle Midway (4-7 giugno), episodio di cruciale importanza nel rovesciare le sorti della guerra nel Pacifico (1941-45).
Sei mesi dopo il devastante attacco di Pearl Harbor (7 dicembre 1941), azione tesa a neutralizzare la capacità offensiva degli Stati Uniti d’America, il Giappone era all’apice dei suoi trionfi: con l’impeto di un maremoto e la distruttività di un rullo compressore, esso aveva travolto qualunque ostacolo sul proprio cammino, demolendo le antiche vestigia del colonialismo europeo e statunitense. Hong Kong, Singapore, Rangoon, Corregidor e Manila, un tempo baluardi della presenza occidentale in Asia, erano state infatti espugnate con una rapidità disarmante, permettendo a Tokyo di coltivare ambizioni egemoniche sul continente.
A un occhio più critico, tuttavia, appariva ben chiaro che le vittorie del Sol Levante poggiassero su fondamenta assai fragili: la decisione di colpire gli USA trascinandoli nel baratro del conflitto mondiale, accelerata dall’embargo che questi ultimi avevano imposto sulle esportazioni di petrolio e di benzina (1 agosto 1941), era nata dalla volontà di scongiurare un possibile strangolamento economico; nondimeno, la conquista dei giacimenti indonesiani e delle vaste piantagioni di caucciù, risorse indispensabili per il sostentamento dell’intero complesso militare-industriale, non sarebbe bastata a colmare il divario preesistente. Un discorso analogo valeva per i settori dell’industria pesante e della produzione agricola, nonché per un PIL la cui crescita stentava a tenere il passo con le spese belliche. Conscio di tali limitazioni, il Comando Supremo avrebbe comunque optato per giocarsi il tutto per tutto con la dottrina del Kantai Kessen, ossia dello scontro decisivo mirato ad annichilire le forze aeronavali avversarie.
Nonostante la battuta d’arresto consumatasi nel Mar dei Coralli (4-8 maggio 1942), primo combattimento nel quale due flotte si erano affrontate senza stabilire un contatto visivo, i giapponesi avrebbero mantenuto il vantaggio dell’iniziativa. Stavolta l’obiettivo selezionato per l’operazione MI, partorita dalla mente dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto (1884-1943) malgrado le obiezioni di alcune figure legate alla Marina, era il piccolo atollo di Midway, situato ad appena 1.600 chilometri a nord-ovest delle Hawaii. Per confondere le acque e attirare gli americani in una trappola mortale, l’ufficiale nipponico avrebbe inoltre predisposto un’azione diversiva sull’arcipelago delle Aleutine (operazione AL), obbligando i propri uomini a mantenere il completo silenzio radio: la riuscita del piano dipendeva infatti dal conseguimento dell’effetto sorpresa, condizione che venne a mancare nell’istante in cui i crittografi violarono anche l’ultima versione del codice JN-25[1], nel maggio del ‘42.
Alla testa dello schieramento si trovavano quattro (Akagi, Kaga, Soryū e Hiryū) delle sei portaerei di squadra che componevano il Kidō Butai[2], un’imponente Task Force comandata dal vice-ammiraglio Chūichi Nagumo (1887-1944). Per ironia della sorte, l’uomo chiamato a dirigerla era conosciuto per la scarsa fiducia riposta nell’arma aerea, risultato di una concezione tradizionalista della guerra navale. Più distante, a un intervallo compreso fra le 300 e le 600 miglia nautiche, navigava invece il resto della squadra d’invasione con le sue 9 corazzate, 2 tuttoponte leggere, 15 incrociatori di vario tipo, 42 cacciatorpediniere, 7 dragamine e 12 trasporti truppe. All’atto pratico, questa dispersione di forze avrebbe negato qualsiasi vantaggio offerto dall’indiscutibile superiorità numerica, a testimonianza dei limiti intrinseci in una pianificazione sofisticata e inutilmente complessa.
Terminate le operazioni di rifornimento, all’alba del 4 giugno 1942, 108 aeroplani avrebbero lasciato gli hangar per neutralizzare le installazioni di Midway, nello specifico l’aeroporto costruito su Eastern Island e i relativi depositi di carburante. Vennero inoltre lanciati sette ricognitori perché pattugliassero un quadrante ampio 455.000 km², nella remota eventualità che la flotta americana si materializzasse di colpo. È bene puntualizzare quanto una simile scelta, rivelatasi poco lungimirante vista l’impossibilità nel coprire un’area tanto vasta con un pugno di idrovolanti, rispondesse a una mera logica precauzionale: nessuno immaginava che le unità stanziate a Pearl Harbor fossero già in mare aperto[3], né tantomeno che i servizi di intelligence avessero carpito informazioni di vitale importanza.
Una volta surclassato il drappello di caccia rimasto a protezione dell’isola, alle ore 06:34, gli apparecchi nipponici iniziarono a sganciare il loro carico di morte, arrecando seri danni alla pista e alle annesse infrastrutture. Malgrado ciò, il colonnello Joichi Tomonaga (1911-1942) comprese ben presto la necessità di una nuova sortita sull’avamposto, pericolosa spina nel fianco da cui dipendeva l’esito dell’intera missione. Nel frattempo, però, anche gli americani avevano preso le dovute contromisure: grazie alle indicazioni fornite da un idrovolante PBY Catalina, i bombardieri di terra sferrarono quattro attacchi distinti contro il Kidō Butai, dimostrando un coraggio e uno spirito di sacrificio degni di ammirazione. Piuttosto emblematico risultò essere il gesto compiuto dal tenente Herbert C. Mayes (1915-1942) che, invece di rientrare alla base con l’aereo danneggiato, puntò il proprio B-26 in direzione dell’Akagi, mancandola di qualche metro.
Pur avendo scongiurato con ogni mezzo la distruzione delle portaerei, Nagumo non poté ancora a lungo ignorare i mutamenti intervenuti sul piano tattico. Alle 07:15, in concomitanza con il primo raid, diede disposizioni affinché gli aerosiluranti in riserva venissero equipaggiati con armi a caduta libera, nella previsione di un secondo passaggio su Midway. Procedimento che fu invertito solamente mezz’ora dopo[4], quando uno dei ricognitori mandati in avanscoperta riferì di essersi imbattuto in “dieci unità di superficie”, 400 chilometri a nord-est dell’atollo. I quindici minuti successivi giocarono dunque un ruolo fondamentale nella sconfitta dei giapponesi, vittime non solo di un cronico indecisionismo nelle fasi salienti della battaglia, ma di un immotivato senso di sicurezza: anziché sincerarsi della reale composizione della flotta avversaria, l’alto ufficiale escluse a priori la possibilità di aver localizzato il nerbo delle Task Force 16 e 17, ipotizzando che si fosse trattato di un semplice fraintendimento dei piloti.[5]
A partire dalle 09:10, tre squadroni di aerosiluranti (VT3, VT6 e VT8) decollati dalla Yorktown (CV-5), dall’Enterprise (CV-6) e dalla Hornet (CV-8) avrebbero azzardato una serie di attacchi infruttuosi, subendo la caccia spietata di una quarantina di “Zero” coinvolti nelle attività di pattugliamento. Nondimeno, simili azioni ebbero il duplice effetto di interrompere il delicato processo di riarmo[6], distogliendo gli aviatori nipponici da una minaccia altrettanto concreta. Alle 10:22, mentre gli uomini diretti dal capitano Jimmy Thach (1905-1981) si misuravano con gli assi del Sol Levante, 50 bombardieri a tuffo “Dauntless” avrebbero iniziato la loro discesa eludendo le difese nemiche: ad essere colpite furono la gigantesca Kaga, dilaniata da quattro ordigni che ne squarciarono il ponte di volo esplodendo negli hangar; la Soryū, centrata da tre bombe che innescarono una violenta reazione a catena; l’Akagi, squassata dalla deflagrazione degli apparecchi ancora stipati nell’aviorimessa. In appena cinque minuti, il fiore all’occhiello della Marina imperiale era stato ridotto a un cumulo di lamiere contorte, un inferno di fuoco che non lasciò scampo alle centinaia di marinai e meccanici intrappolati negli scafi.
Con un’unica portaeromobili sfuggita all’ecatombe Nagumo, caduto in uno stato di shock talmente profondo da dover essere trasferito a forza sull’incrociatore Nagara, incaricò il subalterno Tamon Yamaguchi (1892-1942) di passare al contrattacco. La prima ondata di 24 assalitori comparve sui radar statunitensi intorno a mezzogiorno, provocando l’immediata risposta di un gruppo di F4F “Wildcat” che si lanciò all’inseguimento: solo 14 velivoli sarebbero riusciti a far breccia nello schermo protettivo, infliggendo danni estesi alla Yorktown senza però metterla fuori gioco[7]. Come precauzione, l’ammiraglio Frank Fletcher (1885-1973) venne trasbordato su un’unità minore, l’Astoria (CA-34), delegando il controllo delle operazioni al parigrado Raymond Spruance (1886-1969). Due ore e mezza più tardi, i 16 aeroplani che si erano uniti alla battaglia misero a segno un paio di siluri, causando l’arresto definitivo delle caldaie e un vistoso sbandamento a babordo. Alle 14:55 il capitano Elliot Buckmaster (1890-1976), di fronte alla chiara impossibilità nel contenere la diffusione degli incendi, diramò l’ordine di abbandonare la nave.[8]
Un successo così inaspettato non fu comunque sufficiente a ribaltare l’esito dello scontro: quando un ricognitore localizzò anche l’ultima portaerei giapponese, durante il pomeriggio del 4 giugno, una quarantina di “Dauntless” si avventò sui miseri resti del Kidō Butai trasformando la Hiryū in un tizzone ardente. A questo punto Yamamoto, ben consapevole dei rischi nel manovrare una flotta priva della copertura aerea necessaria, non poté far altro che comandare ai superstiti di invertire la rotta, ufficializzando in tal modo il fallimento del piano. Quella che seguì fu una ritirata lenta e penosa, un’azione nel corso della quale l’incrociatore pesante Mikuma, in grave affanno per via di una collisione col gemello Mogami, venne colato a picco dai bombardieri della Task Force 16 (6 giugno 1942).
Con Midway si chiuse un capitolo del secondo conflitto mondiale in cui il Sol Levante, reduce da una sequela pressoché ininterrotta di vittorie terrestri e navali, aveva saputo sfruttare brillantemente il fattore sorpresa, estendendo il proprio dominio sul Pacifico occidentale e su buona parte dell’Asia orientale. Una volta costretto sulla difensiva, infatti, i limiti derivanti da una strategia miope e da una cronica mancanza di materie prime non avrebbero tardato a farsi sentire, ponendolo in una condizione di netta inferiorità rispetto alla formidabile macchina bellica statunitense.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Il codice JN-25 veniva utilizzato dalla Marina Imperiale per scambiare messaggi crittografati. La conoscenza delle reali intenzioni degli attaccanti avrebbe permesso all’ammiraglio Chester W. Nimitz (1885-1966), Comandante in Capo della Flotta del Pacifico, di studiare le relative contromosse.
[2] La 1 Divisione Mobile (Kidō Butai) contava su sei portaerei di squadra: Akagi, Kaga, Soryū, Hiryū, Shōkaku e Zuikaku. Le ultime due, però, non presero parte all’azione perché danneggiate nel corso della battaglia del Mar dei Coralli (4-8 maggio 1942).
[3] L’attività di ricognizione aerea su Pearl Harbor (Operazione K), sede della Flotta del Pacifico, era stata annullata per fattori metereologici. Si decise pertanto di affidare l’incarico a dei sommergibili spia, i quali però non rilevarono alcun tipo di attività.
[4] Invece di essere riposte nei ricoveri blindati, le bombe furono lasciate negli hangar. È bene inoltre sottolineare come le portaerei giapponesi, a differenze delle omologhe britanniche, non disponessero di un ponte di volo corazzato, bensì in legno.
[5] A pesare sulla decisione finale contribuì la paura di perdere, per via della scarsità di carburante, i 97 aeroplani sopravvissuti al raid di Midway. Nonostante ciò, la vera colpa di Nagumo e del suo staff fu quella di non aver esaminato a sufficienza gli indizi disponibili, nello specifico il fatto che le unità americane stessero viaggiando in direzione contraria al vento (soluzione con cui le portaerei favoriscono il decollo dei propri apparecchi).
[6] La dottrina militare giapponese attribuiva, in caso di attacchi da parte del nemico, la massima priorità al rifornimento e al decollo dei caccia. Tale scelta precludeva in qualsiasi modo la possibilità di lanciare un secondo attacco su Midway, così come un’eventuale sortita contro le portaerei americane.
[7] L’equipaggio della Yorktown riuscì nell’impresa di riparare la nave a tempo di record, al punto che gli avieri giapponesi si convinsero di aver intercettato una seconda portaerei.
[8] Benché fosse stata abbandonata alle ore 15:00 del 4 giugno, la USS Yorktown colò a picco solamente tre giorni dopo in seguito a un attacco del sommergibile I-168.
Goldstein D.M., Putting the Midway Miracle in Perspective, Naval History Magazine, Volume 21, Number 3, United States Naval Institute, June 2007.
Battle of Midway | Significance & Outcome | Britannica
L’ha ripubblicato su La Minerva.
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