Storie della Prima Repubblica: dall’8 settembre alla prima legislatura

Secondo il giudizio di Simona Colarizi, professoressa emerita di storia contemporanea presso l’Università di Roma “La Sapienza”, la nascita dello Stato democratico italiano si sarebbe articolata in due fasi cronologicamente attigue: la prima, compresa fra il 1943 e il 1945, fu contrassegnata dalla caduta del fascismo e dalla firma dell’armistizio di Cassibile, preludio di una sanguinosa guerra civile; l’altra, consumatasi a cavallo fra il 1945 e il 1947, fu invece scandita dall’edificazione di un nuovo complesso politico-istituzionale, destinato a perpetuarsi con alterne fortune sino al 1994.

In effetti una chiara ripresa dell’attività antifascista si ebbe con l’entrata in guerra del 10 giugno 1940, quando la sequela pressoché ininterrotta di sconfitte collezionate nei vari teatri bellici incrinò, in maniera irreversibile, le fondamenta del regime. L’invasione anglo-americana della Sicilia e la conseguente caduta di Mussolini, nel luglio del 1943, avrebbero inoltre condotto alla liberazione di molte figure legate al precedente periodo liberale, invero costrette a muoversi in un contesto dominato dalle velleità autoritarie di Vittorio Emanuele III (1869-1947). Nondimeno, di fronte all’incontenibile fermento imperante tra le masse, il generale e capo del governo Pietro Badoglio (1871-1956) si sarebbe visto obbligato a prendere contatti con il Comitato delle opposizioni, rivedendo nel processo quei disegni egemonici accarezzati dal monarca.

Cruciale in tal senso fu la perdita di credibilità della dinastia regnante, destinata a raggiungere il proverbiale punto di non ritorno nella giornata dell’8 settembre: la fuga del Re, dei suoi ministri e di parte delle autorità militari verso Brindisi, infatti, lasciò il Paese in una condizione di smarrimento senza eguali nella sua storia, mentre la dissoluzione del Regio Esercito facilitò l’avanzata dei tedeschi e l’instaurazione di uno Stato fantoccio nel Settentrione.

UNO SGUARDO AGLI ATTORI POLITICI…

In questo panorama dominato dalla scomparsa della stessa idea nazionale, brillantemente riassunta dallo storico e giornalista Ernesto Galli della Loggia nell’espressione morte della Patria, incominciò a farsi largo un nuovo protagonista che rivendicava il ruolo di legittimo rappresentante del popolo italiano. Costituitosi il 9 settembre 1943 dalla trasformazione del già menzionato Comitato delle opposizioni, il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) raccoglieva al proprio interno un ampio novero di forze eterogenee come cattolici, comunisti, socialisti, repubblicani, monarchici, democratici e riformisti, le quali si richiamavano alle organizzazioni politiche disciolte a partire dal 1926.

Particolare attenzione merita la Democrazia Cristiana, fondata nel marzo del ’43 da alcuni esponenti confluiti dall’ex PPI e capace, grazie al nulla osta ricevuto dalla Santa Sede, di sviluppare una sofisticata rete di collegamenti in tutta la Penisola. Fra i molti tratti distintivi spiccava la natura confessionale, indispensabile nell’attribuirle una portata universale tra i fedeli e, parimenti, una connotazione interclassista. A tal proposito, è bene rimarcare quanto la coesistenza di iscritti provenienti dalle frange sociali più disparate non rappresentasse, almeno in principio, un fattore destabilizzante, dal momento che la religione cattolica e la figura di Alcide De Gasperi (1881-1954) svolgevano la funzione di collante. L’ottenimento dell’imprimatur ad opera del pontefice fu invece il risultato della solerzia del cardinale Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI), convinto assertore della necessità di istituire un’organizzazione politica in grado d’imporsi nel panorama del secondo dopoguerra. L’adesione al Comitato delle opposizioni e la volontà di dialogare con le altre forze antifasciste, pertanto, furono il primo passo in tale direzione.

Più lunga e travagliata era stata la parabola del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), nato da una costola del PSI durante il Congresso di Livorno (gennaio 1921) e costretto, sin dall’infanzia, a un’esistenza di semi-clandestinità. In origine la fisionomia dell’associazione ricalcava quella del partito-avanguardia teorizzato da Lenin, ossia un gruppo di “rivoluzionari di professione” chiamati a diffondere la coscienza di classe tra le fila del proletariato, preludio dell’insurrezione contro lo Stato capitalistico-borghese. La rigida disciplina imperante al suo interno rispondeva quindi al bisogno di scongiurare la formazione di correnti centrifughe, imbrigliandole alle direttive provenienti da Mosca nella cornice della Terza Internazionale. Fu proprio questo vincolo di doppia fedeltà ad alimentare un alone di sospetto che avrebbe avvelenato, almeno sino all’estate del ’41, i rapporti con le restanti realtà politiche, quando l’avvio dell’Operazione Barbarossa e la nascita della “Grande Alleanza” obbligarono il PCd’I a mutare condotta.

Con il rovesciamento delle fortune dell’Asse, nel biennio 1942-43, apparve chiaro che la definizione delle sfere d’influenza sarebbe stata dettata dalla celerità con cui le truppe alleate avessero raggiunto i loro obiettivi. Nel caso italiano, l’avanzata degli anglo-americani e la lontananza dell’Armata Rossa ponevano i comunisti in una situazione alquanto delicata, passibile di marginalizzarli rispetto ai movimenti laici e cattolici. Scartata l’ipotesi rivoluzionaria, il segretario generale Palmiro Togliatti (1893-1964) avrebbe scelto la via dell’integrazione nel futuro sistema istituzionale, stravolgendo in tal modo l’impostazione del vecchio PCd’I (nel frattempo ribattezzato Partito Comunista Italiano). Non meno significativo fu il contributo prestato nella soluzione del contenzioso con la monarchia sabauda, responsabile agli occhi di numerosi esponenti del CLN dell’ascesa del fascismo e della tragedia dell’8 settembre: il compromesso raggiunto fra le parti nell’ambito della celebre Svolta di Salerno (aprile 1944), infatti, accantonava temporaneamente la questione, favorendo la nascita di un governo di unità nazionale sotto la guida di Pietro Badoglio. Il 5 giugno successivo Vittorio Emanuele III, in linea con gli impegni assunti due mesi prima, avrebbe nominato luogotenente del Regno suo figlio Umberto, il quale fece a propria volta approvare un decreto (n°151) con cui demandava a un’Assemblea Costituente la scelta della nuova forma di Stato

Se la D.C. e il PCI avevano dalla loro due formidabili alleati, al contrario il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP) versava in una condizione meno invidiabile, dovuta alla mancanza di ingenti risorse finanziarie e alla distruzione della rete organizzativa sindacale negli anni della dittatura. Altro fattore di debolezza era quello rappresentato dalla conclamata incapacità nel creare una base compatta, carenza che avrebbe conservato fino alla dissoluzione avvenuta nel 1994. Quest’ultima tendenza può essere spiegata tenendo conto dell’inconciliabilità fra le correnti rivoluzionaria e riformista, da tempo impegnate in una lotta serrata per assumere la direzione del partito. Tema ricorrente nella storia del PSI fu inoltre la ricerca di un’intesa coi comunisti, benché i mutamenti intervenuti sulla scena internazionale dopo la firma del patto Molotov-Ribbentropp (23 agosto 1939) avessero complicato non poco il lavoro.

Discorso a sé è quello relativo al Partito d’Azione (PdA), fondato nel 1942 dall’aggregazione di gruppi clandestini di orientamento democratico e liberal-socialista. Se da un lato la volontà di liberare il Paese nella prospettiva di un secondo Risorgimento, ambizione ben deducibile dal nome che richiamava all’esperienza mazziniana, gli avrebbe consentito di esercitare un ruolo chiave nella lotta partigiana, dall’altro impedì la realizzazione di una struttura atta a mobilitare gli iscritti; la medesima impalcatura che avrebbe permesso al Partito Repubblicano (PRI) di continuare la propria parabola, raccogliendo consensi tra un ceto medio colto e progressista apertamente ostile alla natura liberticida del fascismo, nonché critico verso l’operato di casa Savoia. Di conseguenza, l’autoesclusione dai governi ciellenisti rientrava all’interno di una strategia coerente con gli ideali dell’associazione, senza per questo suggerire un’abdicazione dal ruolo di co-protagonista nello scenario postbellico.

L’accordo con la monarchia venne invece accolto con il beneplacito dello schieramento liberale, relegato in una posizione di marginalità dopo che l’avvento della società di massa aveva palesato i limiti intrinseci di una visione elitaria della politica. A pesare su questa mancata affermazione nell’alveo del CLN contribuì non solo l’apporto trascurabile avuto nella lotta al fascismo, la cui natura eversiva era stata sottovalutata da un establishment impegnato nel contenimento del pericolo socialista, ma anche il ruolo di comprimario avuto nell’edificazione del regime stesso.

Anomalia interessante nello scenario fin qui delineato fu il Fronte dell’Uomo Qualunque, istituito dal giornalista e drammaturgo Guglielmo Giannini (1891-1960) in aperta polemica col pluralismo partitico esploso alla fine del ’43. Disorientati dal coro di voci dissonanti dopo un ventennio trascorso all’insegna della demonizzazione dell’ideale democratico, numerosi cittadini avevano infatti scelto di rifugiarsi nei valori rassicuranti della stabilità e dell’ordine, maturando una crescente ostilità nei confronti della “partitocrazia”. Humus per la crescita del movimento fu la querelle sull’epurazione degli ex-fascisti dalla macchina statale, destinata a trascinarsi così a lungo da minacciare la tenuta del Comitato di Liberazione. Emblematica in tal senso fu la crisi governativa esplosa nell’autunno del 1944, quando l’esecutivo retto da Bonomi fu salvato dall’intervento provvidenziale di un PCI che temeva ripercussioni sull’unità delle squadre partigiane, in piena ritirata dopo l’offensiva d’estate.

LA NASCITA DELLE REPUBBLICA

L’alterazione degli equilibri governativi a vantaggio delle sinistre divenne più evidente nel dicembre del ’45, quando la parabola di Ferruccio Parri (1890-1981) alla Presidenza del Consiglio si consumò di fronte all’intrinseca debolezza del suo PdA. Eppure, la necessità di tenere unita la coalizione che aveva contribuito alla cacciata dei nazifascisti condusse alla formazione di un esecutivo retto da De Gasperi, chiamato a guidare il Paese in una stagione intervallata dalle prime libere consultazioni sin dal 1919.

Fra tutte merita un discorso a sé il referendum del 2 giugno 1946, nel corso del quale gli elettori furono chiamati a esprimersi sulla forma di Stato da dare all’Italia. Malgrado le responsabilità avute nell’ascesa di Mussolini (1883-1945) e nella mancata difesa della madrepatria, la dinastia dei Savoia godeva ancora di un certo prestigio in quanto simbolo di continuità con una tradizione risalente al Risorgimento. Oltretutto, era convinzione diffusa che un eventuale trionfo della Repubblica avrebbe rafforzato lo schieramento social-comunista, da sempre spauracchio dei ceti medio-borghesi e della moltitudine di fedeli vicini alla Chiesa. In ultima istanza, la decisione di De Gasperi di lasciare ai cittadini la massima libertà di coscienza si sarebbe dimostrata fatale per le sorti della monarchia, sconfitta con il 46% delle preferenze nonostante gli ottimi risultati raccolti in diverse aree del Meridione.

Meno imprevedibile fu l’esito delle elezioni politiche per l’Assemblea Costituente, anch’esse tenutesi nella giornata del 2 giugno e destinate a premiare i tre maggiori partiti di massa: fra questi s’impose come forza egemone la Democrazia Cristiana, capace di ottenere il 35,2% dei consensi, seguita dal PSIUP con il 20,7% e dal PCI con il 18,9%. Nondimeno, l’impossibilità di istituire un monocolore rese necessaria la creazione di un esecutivo tripartitico appoggiato dai repubblicani, al quale venne attribuito il compito di elaborare una nuova Carta costituzionale che rappresentasse il fronte antifascista nella sua totalità. È bene inoltre sottolineare quanto nessuna organizzazione volesse assumersi per intero le responsabilità derivanti dalla ratifica degli accordi di pace, i quali avrebbero penalizzato un’Italia costretta a rinunciare ad ampie aree del Nord-Est, della Dalmazia, del Dodecaneso, dell’Istria e delle colonie africane. Altrettanto infuocata fu la polemica che ebbe per oggetto la città di Trieste, rivendicata dalla Jugoslavia di Tito (1892-1980) col sostegno dell’Unione Sovietica e divisa, come misura provvisoria, in due zone di occupazione poste sotto il controllo alleato.

Ottimo documentario de “La storia siamo noi” dedicato al referendum del 2 giugno 1946, a cura di Marco Marra e Sergio Leszczynsky

L’EPILOGO DEI GOVERNI DI UNITA’ NAZIONALE

Tra le principali sfide che attendevano Alcide De Gasperi, leader di un nuovo governo di unità nazionale formatosi nel luglio del ‘46, figurava la rapida alterazione degli equilibri post-bellici: al venir meno della “Grande Alleanza” che aveva trionfato sul nazifascismo, nel maggio del ’45, andavano sommate le pressioni della Santa Sede rispetto ai proseliti raccolti dalla CGIL. Quest’ultime avrebbero potuto ledere irrimediabilmente i rapporti fra democristiani, comunisti e socialisti unitari, se Pio XII (1876-1958) non avesse acconsentito a prolungare la vita dell’intesa tripartitica.

Oltre ad aver eroso le fondamenta dell’esecutivo, l’intensificarsi del confronto bipolare si rivelò più che sufficiente per risvegliare, tra le fila del PSIUP, quelle spinte centrifughe mai del tutto sopitesi. Cruciale in tal senso fu la decisione del segretario Pietro Nenni (1891-1980) di non appoggiare, in ottemperanza al patto di unità d’azione sottoscritto con Palmiro Togliatti, la linea antisovietica adottata dal COMISCO[4]: essa avrebbe infatti condotto, nel gennaio del 1947, alla fuoriuscita dell’ala coagulatasi attorno a Giuseppe Saragat (1898-1988), la quale assunse la denominazione provvisoria di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).

Non deve quindi sorprendere il passaggio dei socialcomunisti, al momento della crisi governativa verificatasi nel maggio seguente, tra le fila dell’opposizione, logica conseguenza di una dottrina Truman che aveva ufficializzato lo scoppio della Guerra Fredda. L’ondata di scioperi e di agitazioni contro il carovita ebbe, tuttavia, il solo effetto di risvegliare l’antica paura di un contagio rivoluzionario, spingendo le classi medie fra le braccia di una D.C. che aveva saputo ergersi a baluardo dell’ordine statuito. Altrettanto dannosa fu la contrarietà ai finanziamenti che giungevano dagli USA nell’ambito del Piano Marshall, accolti con sollievo da una comunità impegnata nella scommessa di rilanciare il Paese. Il brusco epilogo della strategia di cooptazione, esacerbato dalla disputa internazionale fra Washington e Mosca per il controllo sui Dardanelli, avrebbe infine convinto il Partito Repubblicano (PRI) e il PSLI ad appoggiare il quarto mandato degasperiano (31 maggio 1947-12 maggio 1948), superando così l’antico pregiudizio laico.

L’approvazione della legge fondamentale, nella giornata del 22 dicembre, rappresentò dunque l’atto conclusivo della stagione consociativista apertasi tre anni prima a Salerno, ora accantonata in favore di una competizione elettorale scandita da toni infuocati. Altri key players sarebbero intervenuti dall’esterno per sbarrare la strada al Fronte Democratico: il Vaticano, capace di mobilitare schiere di sacerdoti nell’ambito di una veemente campagna anticomunista; gli Stati Uniti d’America, presentati alla stregua di un’Arcadia felice disposta a condividere il proprio benessere in cambio di un semplice voto. Non meno determinanti nel convincere i cittadini a votare in massa la D.C. furono, soprattutto nelle zone rurali, i richiami alla religiosità e alla miseria dilagante in Russia.

Con la tornata del 18 aprile, la Democrazia Cristiana si confermò ancora una volta nel ruolo di prima forza del Paese, ottenendo il 48,5% dei consensi: oltre alla spaccatura consumatasi all’interno del PSI, relegato nel ruolo di gregario con appena il 9% delle preferenze, il cartello delle Sinistre scontava infatti una palese incapacità nell’attrarre a sé l’intero bacino elettorale del Partito d’Azione (PdA). Circostanza, questa, assai diversa rispetto a quanto verificatosi nel Movimento Sociale (MSI), in grado di sfruttare il declino dei qualunquisti per accedere in Parlamento.

Le elezioni del ‘48 hanno sancito l’inizio di una prassi politica destinata a perpetuarsi fino alla caduta dell’esecutivo Tambroni, nel luglio del 1960, costruita sull’egemonia dell’asse D.C.-PSLI-PLI-PRI. Nondimeno, se è vero che la formula centrista ha assicurato l’esercizio del potere neutralizzando i poli antidemocratici, è altrettanto innegabile che abbia impedito il naturale avvicendamento fra maggioranza e opposizione, contribuendo in tal modo alla deresponsabilizzazione della classe dirigente. Fu proprio l’ingresso nel Patto Atlantico a ufficializzare l’esclusione dei partiti estremisti, vuoi perché legati a doppio filo con Mosca, vuoi perché passibili di tramare contro le istituzioni liberali. In sintesi, la conventio ad excludendum è stata la risposta governativa a uno dei periodi più tesi nella cornice della Guerra Fredda, caratterizzato da un’escalation del confronto fra le superpotenze come accaduto durante il blocco di Berlino (1948-1949) e, soprattutto, in occasione del conflitto coreano (1950-1953).

Analizzando con maggior attenzione il panorama italiano, si possono invece cogliere il senso di smarrimento e di profonda frustrazione imperanti nel PSI, squassato dalla lotta intestina fra i sostenitori dell’alleanza col PCI e i fautori di un indirizzo più autonomista. Ciò risultò evidente in seguito al passaggio di consegne fra Nenni e Alberto Jacometti (1902-1985), nel luglio del 1948, propedeutico a invertire il trend negativo cominciato con la scissione di Palazzo Barberini. Un disegno che, col senno di poi, si sarebbe rivelato troppo ambizioso per un partito indebolito dalla recente espulsione dal COMISCO, al punto da agevolare il ritorno dello storico Segretario.

In conclusione, è lecito affermare che la parabola della prima legislatura (1948-1953) sia stata dominata da un clima di tensione che rischiò, in alcuni casi, di degenerare nello scontro violento: emblematica fu la crisi scaturita dalla mobilitazione di piazza indetta dalla CGIL in risposta all’attentato contro Togliatti (14 luglio 1948), rientrata grazie alla lucidità dei dirigenti comunisti che scartarono qualsiasi progetto insurrezionale. Scelta assennata, nell’ottica di quella strategia di legittimazione perseguita fin dal 1944, ma non esente da contraccolpi, come la rottura dell’unità sindacale e la strumentalizzazione dell’episodio in chiave reazionaria.

LA PRIMA LEGISLATURA (1948-53)

Nel frattempo, la coalizione governativa procedeva col suo programma di ricostruzione nazionale e di rilancio delle relazioni diplomatiche, obiettivi irrinunciabili per il reinserimento dell’Italia in un’Europa che stava cambiando pelle. Tuttavia, l’adozione di una politica liberista volta a rimpinguare le casse dello Stato avrebbe finito con l’esasperare le precarie condizioni delle classi lavoratrici, interessate da una vasta campagna di licenziamenti mentre il mercato del lavoro cercava lentamente di riprendersi. Per tenere sotto controllo eventuali spinte eversive e consolidare la propria presa sul tessuto sociale, la D.C. fece dunque approvare delle misure straordinarie per il Meridione come la riforma agraria (1950), mirata all’espropriazione dei latifondi e alla loro suddivisione in tante piccole proprietà, assieme al potenziamento delle infrastrutture tramite i prestiti concessi dalla Cassa per il Mezzogiorno.

La linea economica adottata dal governo ebbe ripercussioni negative anche sullo stato di salute del PRI, interprete nella figura del ministro per il Commercio Estero Ugo la Malfa (1903-1979) di un indirizzo keynesiano che tenesse conto della questione sociale: la povertà imperante nel Paese, così come l’invadenza dei comitati civici di Luigi Gedda (1902-2000), rischiavano infatti di offrire al comunismo terreno fertile dove affondare le proprie radici. Nemmeno il PLI sarebbe rimasto immune alle conseguenze derivanti dal riformismo democristiano, primo fra tutti quello agrario che aveva colpito con estrema durezza il notabilato meridionale, spingendolo fra le braccia di un Partito Nazionale Monarchico (PNM) in grado di occupare posizioni di rilievo nelle amministrazioni locali. Altra forza molto attiva in quest’area era il Movimento Sociale, impegnato in una duplice strategia mirata a coniugare l’anima extraparlamentare e socialistica con quella legalitaria.

L’insieme di tali fattori contribuisce a spiegare il calo dei consensi accusato dalla D.C. nelle amministrative del ’52, quando il partito cattolico perse ben 10 punti percentuali rispetto al risultato fatto registrare appena quattro anni prima. Il timore che un simile trend potesse ripetersi in occasione della tornata elettorale successiva avrebbe persuaso De Gasperi a modificare, su suggerimento del collega Mario Scelba (1901-1991), la legge elettorale in vigore alla Camera, attribuendo un premio di maggioranza pari al 65% dei seggi alla lista che avesse ottenuto il 50%+1 delle preferenze valide. Il progetto attirò su di sé una tale pioggia di critiche da accreditarsi il titolo poco edificante di “legge truffa”, nonché continui richiami alla riforma Acerbo che aveva favorito l’ascesa della dittatura fascista.

Alla prova dei fatti, nemmeno questo espediente avrebbe permesso al quadripartito di recuperare terreno sulla concorrenza, capace di sottrarre una manciata di voti sufficiente a impedire il raggiungimento del quorum e, di conseguenza, dell’ambito correttivo maggioritario. Le ragioni dietro alla disfatta vanno ricercate nel venir meno di quel voto utile che, nel 1948, aveva oltremodo ingrossato le fila della D.C., allora percepita come il solo e unico baluardo anticomunista. Un contesto storico-politico che, nel giugno del ’53, era sensibilmente mutato: la morte di Stalin (5 marzo 1953) e la conclusione della guerra di Corea (27 luglio 1953) avevano infatti contribuito alla riapertura del dialogo fra le superpotenze, propedeutica alla chiusura di alcuni contenziosi territoriali come quello sul Territorio Libero di Trieste.

Niccolò Meta

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

FONTI BIBLIOGRAFICHE

S. Colarizi, “Storia politica della Repubblica. 1943-2006: Partiti, movimenti e istituzioni”, Editori Laterza, Bari, 2007.

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