6 aprile 1924, Regno d’Italia

Al termine di una campagna elettorale scandita da minacce, assassinii e altri episodi di violenza, si svolgono le votazioni per il rinnovo della Camera dei Deputati. A uscirne vittoriosa sarà la Lista Nazionale, in grado di ottenere il 65% delle preferenze per un totale di 374 seggi.

L’estrema debolezza nella quale versavano le istituzioni democratiche durante il cosiddetto “biennio nero” (1921-1922), unita alla reazione scoordinata degli avversari e alla sostanziale connivenza delle forze dell’ordine, aveva persuaso Benito Mussolini (1883-1945) a tentare un azzardo che lo avrebbe condotto alla guida dell’esecutivo: cominciata il 27 ottobre 1922 con l’occupazione di commissariati, uffici postali e stazioni telegrafiche, la Marcia su Roma venne diretta da un quadrumvirato composto dai gerarchi Italo Balbo (1896-1940), Michele Bianchi (1882-1930), Emilio de Bono (1866-1944) e Cesare Maria De Vecchi (1884-1959). Al contrario, il fondatore del Partito Nazionale Fascista (PNF) sarebbe rimasto a Milano nell’attesa di conoscere l’esito dell’azione, pronto a riparare in Svizzera qualora le circostanze lo avessero richiesto.

Di fronte a una simile minaccia Luigi Facta (1861- 1930), l’allora Presidente del Consiglio, aveva reagito dichiarando lo stato d’assedio, la cui validità era però subordinata all’atto sanzionatorio del monarca. Il rifiuto opposto in tal senso da Vittorio Emanuele III (1869-1947), probabilmente timoroso di trascinare il Paese nel baratro di una guerra civile, ebbe quindi un ruolo cruciale nel determinare il successo del piano eversivo: nella giornata del 30 ottobre 1922, Mussolini divenne il leader di un governo di coalizione che includeva popolari, liberali, nazionalisti e fascisti, conquistando nei mesi a venire una posizione dominante grazie alla legiferazione per decreti legge.

L’ascesa del giovane Premier non incontrò resistenze nemmeno da parte delle Sinistre, ancora disorientate dopo il fallimento dello sciopero legalitario del 31 luglio e, per questo motivo, timorose di un’eventuale rappresaglia. A ciò si sommavano altri fattori come l’eccessiva frammentazione del blocco socialista, indebolito dalla recente scissione fra il PSI e il PSU; la reticenza dei fuoriusciti nel collaborare coi massimalisti di Domenico Fioritto (1872-1952), scontrandosi in tal modo con i desiderata del Comintern[1]; la sottostima del pericolo incarnato dal fascismo e dalla sua inestinguibile brama di potere. Inoltre, era opinione diffusa che un drastico irrigidimento della “dittatura borghese” potesse giovare alla causa del proletariato, risvegliandone una volta per tutte lo spirito combattivo.

Con il varo dei nuovi provvedimenti quali la fondazione del Gran Consiglio del Fascismo (15 dicembre 1922), della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (1 febbraio 1923) e il graduale riavvicinamento alla Santa Sede, persino l’unità del Partito Popolare Italiano (PPI) iniziò a vacillare. Piuttosto indicative furono le dimostrazioni di accondiscendenza palesate da alcuni suoi membri, contrarie alla linea di non collaborazione propugnata da Don Luigi Sturzo (1871-1959) in occasione del Congresso di Torino (12-14 aprile 1923).

Non bisogna tuttavia dimenticare come lo stesso PNF, nella stagione antecedente il discorso del 3 gennaio 1925, fosse stato attraversato da preoccupanti tensioni fra il “Duce” e i suoi collaboratori: oltre alla necessità di ridefinire il ruolo dell’organizzazione scongiurando qualsiasi atteggiamento opportunistico, Mussolini dovette confrontarsi con continue crisi locali che lasciarono presagire la fine della sua parabola politica. Fra le misure adottate per contrastare un simile fenomeno si ricordano, in ordine di efficacia, l’impiego dei prefetti per ricondurre i “ras” all’obbedienza, nonché la modifica degli organi statutari per sottrarre loro il comando delle squadre d’azione.

Per cogliere appieno le ragioni dietro a una frattura così profonda, è imperativo tener conto dell’inconciliabilità fra le due anime del PNF, divenuto un partito governativo pur continuandosi ad attribuire una vocazione rivoluzionaria. Da qui la polemica serrata fra i “revisionisti” e gli “integralisti”, rispettivamente capeggiati da Giuseppe Bottai (1895-1959) e da Roberto Farinacci (1892-1945), destinata a raggiungere l’acme con l’allontanamento di Massimo Rocca (1884-1973) dopo che questi ebbe suggerito lo scioglimento dell’associazione.

Nel frattempo, il Gran Consiglio del Fascismo aveva approvato quel disegno di legge redatto dall’economista Giacomo Acerbo (1888-1969), propedeutico al superamento del sistema elettorale in vigore con uno di stampo maggioritario: i 2/3 dei seggi alla Camera sarebbero spettati alla lista che avesse ottenuto, a livello nazionale, almeno il 25% dei voti, mentre i restanti sarebbero stati ridistribuiti seguendo un criterio proporzionale. Fu proprio in tali circostanze che il deputato e giornalista Giovanni Amendola (1882-1926), nell’indicare l’ambizione dei fascisti di non circoscrivere il loro controllo alla sola sfera politico-amministrativa, coniò la fortunata espressione di “totalitarismo“.

Con il passaggio in aula della “Legge Acerbo“, il 21 luglio 1923, si innescò dunque un processo di dissoluzione degli ordinamenti democratici al quale aveva contribuito lo stesso fronte liberale. È bene però sottolineare quanto, all’origine di una scelta così poco lungimirante, figurasse la convinzione per cui l’abbandono del proporzionalismo puro potesse avvantaggiare i partiti di notabili, colpendo le organizzazioni di massa laddove traevano la propria forza: la mobilitazione degli iscritti attraverso le strutture permanenti.

In sintesi, l’insieme di queste riforme avrebbe posto le basi per una transizione verso un assetto egemonizzato dai fascisti, oramai votati all’eliminazione della concorrenza tramite il ricorso allo squadrismo e alla pressione parlamentare: emblematici in tal senso furono i casi del Partito Sardo d’Azione, fusosi nell’aprile del ’23 col PNF grazie alle manovre del prefetto Asclepia Gandolfo (1864-1925); del PPI, sacrificato dagli ambienti vaticani sull’altare dei buoni rapporti con Roma; del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), ridotto a una condizione di semi-clandestinità.

Oltre che per il trionfo del “listone”, la tornata del 1924 viene ricordata per il clima di intimidazioni senza eguali nella storia del Paese, presto denunciate dal deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924). Il suo rapimento e assassinio, avvenuti il 10 giugno a opera di sicari fascisti, avrebbe aperto una delle crisi più gravi che il regime si trovò ad affrontare nel corso della sua ventennale esistenza, caratterizzata dal rifiuto delle opposizioni nel prendere parte ai lavori parlamentari: la Secessione dell’Aventino.

#ilfattodellasettimana

Niccolò Meta

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI


[1] L’Internazionale comunista (Comintern), fondata a Mosca il 2 marzo 1919, si proponeva di supportare la causa del proletariato mondiale mediante la nascita di movimenti comunisti, preludio di un rovesciamento della democrazia capitalistico-borghese grazie all’attività insurrezionale.

E. Gentile, “Fascismo e antifascismo: i partiti italiani fra le due guerre”, Mondadori, Milano, 2000;

J. Chapoutot, “Controllare e distruggere. Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa”, Einaudi, Torino, 2015.

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