LA RINASCITA DEI PARTITI POLITICI, TRA ESILIO E JIHAD
La necessità di ottenere una qualche forma di riconoscimento ad opera della comunità internazionale, in particolar modo da quei Paesi dichiaratamente ostili al Cremlino come l’Arabia Saudita, la Cina e gli Stati Uniti d’America, costituì un potente catalizzatore per la rinascita dei partiti politici in un contesto di clandestinità. Piuttosto indicative risultano essere le parole dell’orientalista Olivier Roy che, nelle pagine del saggio Islam and Resistance in Afghanistan, riporta quanto segue:
Dopo l’insurrezione, i membri locali della Resistenza inviarono delegazioni in Pakistan e in Iran al fine di ottenere armi per le varie organizzazioni. Era indispensabile appartenervi, soprattutto per il supporto logistico nel negoziare aiuti dall’esterno, oltre che per la creazione delle reti di rifornimento. Un partito consentiva di sperare che la tradizionale segmentazione della società potesse essere superata […] in parole povere, esso permetteva l’accesso nell’arena politica.
Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p 110. Traduzione a cura dell’autore.
Non meno cruciale nel garantire la nascita di fronti abbastanza coesi si dimostrò l’azione unificante esercitata dal jihad, ossia dallo sforzo interiore che l’individuo compie per avvicinarsi a Dio e che, qualora le circostanze lo richiedano, esige l’obbligo di partecipare alla guerra santa contro gli infedeli (kāfir). Quest’ultima credenza, riassunta nella formula evocativa di piccola jihad, alimenta ancora oggi un vivace dibattito fra due correnti di pensiero antitetiche: la prima, invero la più radicata fra gli ulama[1], si è resa interprete di un’impostazione difensiva imperniata sulla lotta ai nemici esterni o a un potere dispotico; la seconda, rivelatasi all’opinione pubblica mondiale in seguito alla recrudescenza del fondamentalismo, è invece il frutto di una lettura in chiave militante indirizzata alla sottomissione dei non musulmani. Con riferimento al caso di specie, è bene inoltre sottolineare come la stessa distribuzione dei qawn[2] abbia inciso, in misura quantomeno apprezzabile, sull’appoggio di cui tali organizzazioni hanno goduto a livello territoriale.
Un’anomalia che potrebbe sorprendere il lettore è la mancanza, nei mesi immediatamente successivi all’intervento bellico, di una qualsiasi forma di resistenza attiva nei confronti dei russi. Ciò può essere spiegato tenendo conto non solo della priorità che essi attribuirono alla neutralizzazione dei reparti rimasti fedeli ad Amin, ma anche del sopraggiungere della stagione invernale e della minor intransigenza palesata dall’esecutivo Parcham. Perché il quadro finora descritto si evolvesse in misura significativa bisognò attendere la primavera seguente, quando il sensibile peggioramento del tenore di vita e la continua ingerenza dei sovietici risvegliarono, persino negli strati più indifferenti della piccola borghesia, una forte ondata di patriottismo. La testimonianza inequivocabile del malessere imperante furono le manifestazioni tenutesi a Kabul nel febbraio del 1980 e, di nuovo, nel maggio successivo, presenziate da centinaia di studenti le cui grida di dolore furono represse nel sangue.
Tra coloro che si distinsero per il proselitismo e per l’attività cospiratrice occorre menzionare, almeno per quanto concerne la prima fase del conflitto, gli adepti dell’Organizzazione per la Liberazione del Popolo Afghano (SAMA). Gruppo insurrezionale istituito nel 1977 dai maoisti del defunto Shu’la-yi Jawed[3], esso avrebbe cercato di elevarsi a portavoce di un programma teso all’edificazione di un ampio fronte anti-governativo, necessario al rovesciamento della dittatura del PDPA e alla liberazione del Paese dal giogo di Mosca.
Alla prova dei fatti, però, il raggiungimento di un simile traguardo si sarebbe dimostrato un’impresa titanica anche per i capi più autorevoli che, seppur immuni a qualunque condizionamento di natura ideologica o dottrinaria, restavano divisi da una moltitudine di fattori all’apparenza insuperabili.
LE PRINCIPALI ORGANIZZAZIONI PARTITICHE
Il primo passo verso tale direzione venne compiuto il 19 marzo 1980, quando alcune fra le maggiori organizzazioni in esilio come l’ala moderata del Hizb-i islami (Partito islamico), l’intero Jamiat-i Islami (Società islamica), i clerico-moderati dell’Harakat-i inqlab-i islami (Movimento Islamista per l’Afghanistan), i laici del Jabha-yi nejat-i milli (Fronte di Liberazione Nazionale) e i realisti del Mahaz-i islami (Fronte Islamico) elessero, in qualità di loro rappresentante, un ex membro dei Giovani Musulmani: Abd Rabbi Rasūl Sayyāf (1946-vivente). La sua estraneità alle suddette associazioni politiche, unita a una certa padronanza della lingua araba in virtù degli studi condotti presso l’Università del Cairo, lo avevano infatti reso il candidato ideale per armonizzare gli interessi dei gruppi combattenti, nonché per contrattare in via diretta con le monarchie del Golfo.
Nonostante gli inizi incoraggianti e il desiderio genuino di superare le antiche rivalità, il fallimento della coalizione “pentapartitica” divenne un processo irreversibile nell’istante in cui Sayyāf si risolse a trasformarla nella propria longa manus. Ci svela il professor Roy, prima di introdurre gli avvenimenti che si sarebbero consumati nei mesi a venire:
In principio (Sayyāf, n.d.a.) si schierò con Hekmatyar [esponente dalla fazione radicale dell’Hizb-i islami, n.d.a.] per accelerare una divisione coi moderati e ridurre l’influenza di Rabbani [fondatore del Jamiat-i Islami, n.d.a.] e Khalis [figura spicco tra le colombe del Partito Islamico, n.d.a.] in seno all’alleanza. Poi si rivoltò contro Hekmatyar, creando una spaccatura nell’Hizb.
Essendo responsabile del Tesoro dopo la rottura dell’intesa, si accordò con l’Arabia Saudita perché i fondi fossero versati sul suo conto personale, arrivando persino a comprare quei gruppi di miliziani che giungevano a Peshawar [la principale base dei ribelli situata in territorio pakistano, n.d.a.] per le armi, dando loro ciò che volevano in cambio di un supporto nominale.
Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p 123.
TRADIZIONE CONTRO MODERNITÀ: “IL GRUPPO DEI SETTE” E IL “GRUPPO DEI TRE”
All’indomani del collasso di questa formazione eterogenea, nell’aprile del 1981, il movimento per la resistenza armata si sarebbe diviso in due tronconi capeggiati dalla corrente islamista e dai nostalgici della monarchia. Il primo, conosciuto in Occidente con l’appellativo di “Gruppo dei Sette”, includeva le tre organizzazioni confessionali segnalate in precedenza[4] oltre ai seguaci di Sayyāf, due fazioni minoritarie fuoriuscite dall’Harakat e una proveniente dallo Jabha-yi; il secondo, più stabile ma incapace di raccogliere lo stesso livello di consensi, includeva la totalità delle forze moderate e progressiste, assumendo l’epiteto di “Gruppo dei Tre”.
Sebbene i loro programmi avessero alcuni punti di contatto come il ritiro immediato dei sovietici e la creazione di un nuovo Afghanistan ispirato ai precetti dell’Islam, è altrettanto vero che le loro differenze erano tali da renderne difficile un riavvicinamento spontaneo. Afferma Louis Dupree, con la solita chiarezza che contraddistingue il saggio Afghanistan in 1983, and still no solution:
Il Manifesto del GS [Gruppo dei Sette, n.d.a.] (anti-occidentale e anti-materialista, così come anti-comunista) cerca di re-identificare i valori culturali nazionali all’interno del contesto afghano dell’Islam (non iraniano, né arabo, né pakistano). Quello del GT [Gruppo dei Tre, n.d.a.] è più secolare, e anticipa un ritorno allo status quo pre-golpe del 1973. Diversi leader del GT hanno simpatie realiste, e l’ex monarca Mohammed Zahir (1914-2007) ha recentemente lanciato la sua corona nel pantano politico.
Dupree.L., Afghanistan in 1983: and still no solution, «Asian Survey», Vol. 24, No. 2, «A Survey of Asia in 1983: Part II», Feb., 1984., University of California Press, pp 230-231.
Perché una frattura così profonda si ricomponesse bisognò attendere la primavera del 1985 quando, sotto la pressione diplomatica di Riyad, le due coalizioni si fusero in un unico blocco iniziando a operare con crescente efficacia.
I FREEDOM FIGHTERS: UNA DEFINIZIONE
Il clamore suscitato dall’intervento russo avrebbe conferito all’intera vicenda la fisionomia di uno scontro epico nel quale il piccolo Davide, impersonato dall’Afghanistan e dai suoi irriducibili patrioti, si era visto obbligato a misurarsi col gigantesco Golia. Piuttosto emblematico risulta essere l’epiteto coniato dall’amministrazione Reagan per indicare, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80, l’eterogenea galassia delle fazioni combattenti: quello di “freedom fighters”. Ma chi erano veramente i mujāhidīn, e quali dovevano essere i requisiti perché un credente potesse fregiarsi di un simile titolo? Per rispondere in modo esauriente a un interrogativo di estrema complessità, è fondamentale muovere dall’etimologia della parola stessa, ossia dalla radice jihad analizzata nel primo paragrafo.
Se ci si volesse attenere a un’interpretazione letterale che ne preservi il significato più autentico, un mujāhid sarebbe colui che si sforza di agire nel rispetto dei principi indicati nel Corano, condotta imprescindibile per assicurare il glorioso avvenire dell’Islam e la salvezza della propria anima. Viceversa, alla base della concezione militante troviamo gli insegnamenti di Syed Ahmad Shaheed Barelvi (1786-1831), predicatore indiano e pioniere di un movimento che intendeva opporsi ai nemici del profeta Maometto con la forza delle armi. Nonostante la morte prematura, consumatasi l’8 maggio 1831 al termine della battaglia di Balakot, i suoi precetti avrebbero riscosso ampio seguito tra i clan impegnati nella lotta contro l’imperialismo tardo-ottocentesco, offrendo un modello virtuoso al quale ispirarsi nei momenti di estrema difficoltà.
L’ORGANIZZAZIONE MILITARE, LE TATTICHE, LE LIMITAZIONI
Volgendo lo sguardo all’organizzazione militare e logistica delle forze antigovernative, è possibile distinguere tre diverse categorie di guerriglieri: quelli a tempo pieno, circa 150.000 miliziani ripartiti tra maslaki (professionisti), nizami (soldati) e mutanaki (truppe mobili); le riserve, a loro volta suddivise tra mahalli (autoctoni) e molki (forze civili); ciascun individuo armato operativo nelle zone non occupate. Per contrastare l’impareggiabile potenza di fuoco schierata dai sovietici, i mujāhidīn avrebbero inoltre reagito evitando con qualsiasi mezzo lo scontro in campo aperto, preferendogli delle tattiche di disturbo note con l’espressione “mordi e fuggi”. Queste ultime vertono su attacchi fulminei il cui scopo non è la messa in sicurezza di un obiettivo strategico, né tantomeno la conquista di un territorio, bensì quello di infliggere gravi perdite agli avversari prima che essi reagiscano in maniera adeguata.
Uno degli aspetti distintivi delle azioni condotte dai maslaki è il fatto che si siano consumate, salvo particolari eccezioni, non lontano dalle basi d’appoggio. Per spiegare l’incidenza dietro a un simile modus operandi, è necessario tener conto di una moltitudine di fattori quali la sacralità attribuita al qawn, piccolo universo a sé capace di scandire la vita del ribelle e del suo nucleo familiare; le tensioni derivanti dallo spostamento nelle aree controllate dalle altre tribù, vissuto il più delle volte come un’autentica dichiarazione di guerra; la reticenza delle squadre d’assalto[5] alla prospettiva di allontanarsi per andare a combattere in località ignote.
Meno problematica risultava essere invece la pianificazione contro obiettivi “detribalizzati”, dove la popolazione mista e la decontestualizzazione geografica creavano delle vere e proprie “terre di nessuno”. In merito alla logica seguita nella scelta dei bersagli e nella gestione delle attività sul campo, le conoscenze del politologo Olivier Roy si rivelano, ancora una volta, preziosissime nel delineare un quadro d’insieme che permetta di acquisire familiarità con l’argomento:
La base lancerà gli attacchi contro gli avamposti governativi o i veicoli che percorrono le strade situate nel suo territorio. L’operazione è decisa all’ultimo momento e in modo democratico. Dal momento che il gruppo conosce molto bene il terreno, non sono necessarie istruzioni preliminari. Le informazioni più recenti fornite dagli “agenti” della Resistenza sono passate ai leader del gruppo. L’improvvisazione è all’ordine del giorno.
Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p 175.
E ancora, questa volta analizzando la condotta tenuta nei confronti del regime di Kabul e dei russi:
I gruppi nelle campagne hanno stabilito, in molti casi, un modus vivendi con le forze del governo: queste ultime forniscono loro cibo e munizioni, e sono molto attente a non lasciarsi coinvolgere in sortite […] le cose sono molto diverse quando i russi lanciano un attacco. Inizialmente, i gruppi della Resistenza evitano qualsiasi confronto e si limitano a disturbare il nemico.
[…] Quando c’è una grande offensiva le basi, che sono in stato di allerta giorno e notte, evacuano rapidamente le postazioni minacciate. Pertanto sono i civili che sopportano il peso dei contrattacchi sovietici. Le perdite militari sofferte dalla Resistenza sono basse: per esempio, durante la più grande offensiva nel Panjshir, nel maggio del 1982 (Panjshir V), Massoūd [leader delle forze ribelli nell’area, nda] perse non più del 10% dei suoi combattenti in un periodo di due mesi.
Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p 175.
Gran parte delle operazioni di guerriglia seguivano l’andamento dei conflitti tribali, fenomeni in cui ciascun adulto è chiamato a prestare il proprio contributo mentre, in via del tutto eccezionale, le sfere civile e militare si compenetrano in un mélange indistinguibile. Emblematica in tal senso risulta essere la figura del lashkhar, milite-contadino la cui permanenza nei sangar[6] è condizionata dall’arrivo della stagione dei raccolti. È sotto questa luce che bisogna dunque interpretare l’estrema ferocia assunta dal movimento partigiano, connubio di un odio viscerale verso i miscredenti e della ricerca della gloria attraverso il martirio.
Nondimeno, nel corso degli anni si registrarono numerosi tentativi per fondare un esercito professionale come in Hazarajat, dove furono introdotte la coscrizione obbligatoria, il disarmo dei civili e l’attribuzione del monopolio sugli armamenti alle autorità pubbliche. Misure che, alla prova dei fatti, si sarebbero rivelate assai impopolari tra le famiglie dei soldati, costrette a sobbarcarsi l’onere di mantenerli con vettovaglie e denaro sufficiente all’acquisto delle munizioni, oltre che inefficaci sotto il profilo operativo.
IL “LEONE DEL PANJSHIR”: AHMAD SHAH MASSOŪD
Fra i leader più eclettici della Resistenza merita una particolare attenzione il tagiko Ahmad Shāh Massoūd (1953-2001) che, seppur estraneo a qualsiasi preparazione di stampo militare, dimostrò di essere un abile stratega grazie allo studio delle opere di Mao Zedong (1893-1976), Ernesto Guevara (1928-1967) e del generale Võ Nguyên Giáp (1911-2013).
Consapevole della strategia perseguita dagli aggressori per infiacchire le bande di guerriglieri, il “Leone del Panjshir”[7] ha il merito indiscusso di aver saputo sviluppare una tattica flessibile imperniata sul coordinamento fra i diversi partiti: gli uomini scelti per riaprire la maggiori vie di comunicazione, inquadrati all’interno dei cosiddetti grup-i mutarek (gruppi mobili), erano infatti capaci di operare a grande distanza dalle proprie basi in virtù dell’addestramento superiore, della qualità degli armamenti e, soprattutto, di un organizzazione strutturale ripresa dai commando[8]. La difesa del territorio da eventuali aggressioni sarebbe spettata ai mahalli, a loro volta suddivisi fra unità regolari e reparti d’assalto (grup-i zarbati).
È bene però sottolineare come, all’origine dei successi raccolti dal ribelle nella lotta contro gli invasori, non figurasse soltanto un’indiscutibile padronanza dell’arte militare, né tantomeno un carisma in grado di persuadere i clan a mettere da parte i loro dissapori. Al contrario, la vera chiave di volta fu l’impareggiabile attitudine nel siglare accordi di convenienza, arrivando persino a negoziare con i miscredenti salvo poi aggirare i termini della tregua. Ci rivela Louis Dupree, con riferimento a quanto appena asserito:
Un evento interessante si consumò all’inizio dell’anno [1983, n.d.a.]. Dopo lunghe negoziazioni Ahmad Shah Massoūd, un importante leader nella valle del Panjshir, a nord di Kabul, siglò un accordo di sei mesi per il cessate il fuoco con i comandanti sovietici e della Repubblica Democratica. Trattando con lui, i primi accettarono tacitamente la sua leadership sul Panjshir e, di conseguenza, riconobbero i mujāhidīn come una forza politica legittima.
Nessun contendente rispettò i termini della tregua, visto che i russi la ruppero quasi immediatamente annunciandola. Ma le guarnigioni di Mosca si sarebbero ritirate dai loro principali avamposti nel Panjshir. Inoltre, il cessate il fuoco consentì a Massoūd di inviare i suoi uomini lontano dall’area, aiutando quei freedom fighters attaccati dai sovietici.
Dupree.L., Afghanistan in 1983: and still no solution, «Asian Survey», Vol. 24, No. 2, «A Survey of Asia in 1983: Part II», Feb., 1984., University of California Press, p 235.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Il termine ulama indica i dotti delle scienze religiose.
[2] L’espressione qawn viene utilizzata per indicare l’unità elementare della società civile, anche se non necessariamente coincidente con la tribù.
[3] Il Shu’la-yi Jawed, grossomodo traducibile con l’espressione Fiamma Eterna, si ispirava agli insegnamenti dottrinari del maoismo. Riuscì a conquistarsi l’appoggio di numerose frange sociali come gli studenti universitari, i lavoratori professionisti e svariati gruppi etnico-religiosi (Pashtun, Hazara e musulmani Sciiti).
[4] Si intende l’Hizb-i islami, lo Jamiat-i Islami e dell’Harakat-i inqlab-i islami.
[5] Gli effettivi di tali unità oscillavano, in genere, tra le venti e le cinquanta unità.
[6] Fortificazioni difensive costruite in pietra, paragonabili alle nostre trincee.
[7] Massoūd poté fregiarsi di questo appellativo grazie valore con cui difese la zona, tra il 1980 e il 1985.
[8] Trentatré uomini ripartiti in tre sottocategorie, ciascuna dotata di un comandante, di un vice e di una figura di collegamento.
L’ha ripubblicato su La Minerva.
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