Perché è così difficile controllare l’Afghanistan?

«Il nazionalismo afghano non è smaccato come quello persiano, perché i governanti hanno imparato […] che il popolo a cui cercano di instillarlo è ancora pronto a lottare, prima di rinunciare alle sue tradizioni per un piatto di lenticchie tecnologiche».

Robert Byron, «La via per l’Oxiana», 1937

Crogiolo di civiltà in virtù della posizione strategica e delle favolose ricchezze celate nel sottosuolo, l’Afghanistan non è certo estraneo agli appetiti espansionistici dei Paesi limitrofi e lontani. Negli ultimi duemila anni, infatti, numerose potenze si sono succedute in un valzer scandito dall’incedere degli eserciti e dal tintinnio delle spade, senza per questo riuscirvi a imporre un controllo capillare.

È stata proprio l’irriducibilità a far sì che l’indomabile –stan State, crocevia obbligato fra la grande steppa eurasiatica e le fertili pianure dell’Indo, fosse insignito dell’iconico appellativo di “tomba degli imperi”. Una nomea che gli insuccessi collezionati dagli inglesi, dai sovietici e dagli statunitensi hanno contribuito a rendere leggendaria.

Scopo dell’articolo sarà quindi quello di riassumere, nella maniera più obiettiva possibile, l’impatto che i fattori geografici, religiosi ed etnici hanno avuto nel plasmare i caratteri salienti del popolo afghano, evitando di incorrere nei luoghi comuni e negli stereotipi alimentati dalla scarsa conoscenza del contesto preso in esame.

LA DOPPIA NATURA DELL’AFGHANISTAN: CENTRO E PERIFERIA

Premessa indispensabile dalla quale avviare l’intera disamina è lo studio del dualismo imperante fra il centro e la periferia, espressioni di due realtà parallele i cui tratti distintivi hanno superato la prova del tempo, sopravvivendo a quel processo di State building incominciato sul finire del XIX secolo. Se è vero infatti che l’utilizzo di coppie oppositive non costituisce una novità nel panorama delle ricostruzioni storiografiche, nel caso di specie l’esistenza di una cesura netta tra le due sfere può essere percepita in una moltitudine di ambiti, invero oscillanti dalla gestione della cosa pubblica fino alle esperienze quotidiane. Ciò risulta ancora più evidente nelle zone rurali, dove gli edifici amministrativi sono stati costruiti in modo da non invadere gli spazi del bazar e della piazza, così come nell’abbigliamento degli autoctoni, indicatore formidabile della posizione sociale da essi occupata. A questo proposito, è opportuno citare un passaggio tratto dall’opera Islam and Resistance in Afghanistan, pubblicata nel 1990 dal ricercatore e orientalista francese Olivier Roy:

«[…] in realtà esistono due Afghanistan: il primo è la cittadina (shahr), luogo dell’innovazione; essa è l’habitat naturale del funzionario pubblico, dell’insegnante, del soldato e del comunista, tutti “intellettuali col capo scoperto” (sarluchak) ritenuti miscredenti e arroganti; il secondo è la provincia (atraf), dimora della religione, della tradizione (sunnat) e dei valori che resistono nei secoli».

Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p.10.

Unica eccezione in tal senso è la capitale Kabul, dove per ovvi motivi tale distinzione ha assunto contorni più sfumati.

Il secondo fattore propedeutico ad acuire una simile dicotomia è stata l’indifferenza delle campagne rispetto ai cambiamenti dello scenario politico. Benché la lotta all’analfabetismo e il diffondersi dei nuovi mezzi di comunicazione avessero agevolato, a partire dalla seconda metà del ‘900, l’inclusione delle masse nelle dinamiche istituzionali, tale processo sarebbe rimasto confinato alle grandi città. Al di fuori di esse, il confronto dialettico per la gestione del potere rimase appannaggio di un numero ristretto di notabili, i khan, impegnati a difendere le loro prerogative ricorrendo al clientelismo, all’esercizio pro tempore di cariche giudiziarie e alla costruzione di una fitta trama di relazioni interpersonali. Eppure, questi due mondi all’apparenza inconciliabili sono rimasti legati da un continuo rapporto di azione e interazione destinato, nel corso dei secoli, a evolversi lungo due direttrici: l’allocazione di risorse finanziarie a vantaggio delle singole comunità, espediente utilizzato dall’establishment per consolidare il proprio controllo; le iniziative di mobilitazione culturale pilotate dal centro, sovente osteggiate dagli elementi più conservatori.

LE DIMENSIONI ETNICA, LINGUISTICA E RELIGIOSA

Non meno importante per cogliere i caratteri distintivi dell’anomalia afghana è l’aspetto etnico, capace non solo di chiarire il perché dei privilegi detenuti da alcuni clan, ma anche i rapporti di forza imperanti fra gli stessi. Su una popolazione di circa 33 milioni di abitanti[1], dato appreso dai rilevamenti condotti nel 2016 dalla Central Intelligence Agency (CIA), si stima che il 42% di essi appartenga al gruppo dei Pashtun. Poche tuttavia sono le informazioni relative all’origine di questa stirpe iranica, insediatasi nelle vallate sud-orientali circa 50.000 anni fa e, da allora, impegnata in una lotta senza quartiere contro Medi, Persiani, Macedoni fino ad arrivare agli americani. Altre etnie degne di menzione sono quelle dei Tagiki, degli Hazara, degli Uzbeki, degli Aimak, dei Turkmeni e dei Beluci, tessere sconnesse di un mosaico all’apparenza indecifrabile se analizzato secondo i canoni eurocentrici della storia ma, al contempo, in grado di completarsi in modo armonioso di fronte all’incalzare dei fattori esterni.

È bene inoltre ribadire quanto il computo delle differenze non si limiti ai trascorsi storico-politici, né tantomeno ai modelli valoriali trasmessi da una generazione all’altra: a fronte di due linguaggi formalmente riconosciuti quali il Pashtu e il Dari, quest’ultimo retaggio della dominazione persiana ed elevata al rango di lingua franca, spiccano altri quaranta dialetti parlati da almeno un 15% degli autoctoni. Le ragioni dietro una simile peculiarità sono in parte rintracciabili nella dimensione geografica, giacché le asperità del territorio e le sue impervie catene montuose hanno favorito l’isolamento delle varie tribù, facilitando così la conservazione del folklore. A uno sguardo più attento, si può infatti constatare che le tre macroaree in cui si è soliti dividere l’Afghanistan, vale a dire le fertili pianure nordiche, gli altipiani dell’Hazarajat e le distese sud-orientali sono a loro volta scomponibili in aree più piccole, purché si tenga conto dell’aspetto etnico. Nel primo caso, il massiccio dell’Hindu Kush divide fisicamente le regioni del Badakhshan-Vakhan e del Balkh-Meymaneh, entrambe popolate dagli artigiani Tagiki e dagli infaticabili contadini Turkmeni, mentre a sud è possibile individuare un anello costituito dalle città di Kabul, Kandahar ed Herat, dove si riscontra una nutrita presenza Pashtun, Durrani e Nuristani.

Nondimeno, la nascita del mito della tomba degli imperi ha richiesto l’identificazione di un collante capace di assicurare il temporaneo accantonamento delle divergenze socio-culturali, nello specifico la fede musulmana. L’avvento dell’Islam è stato il prodotto della vittoria maturata dal Califfato dei Rashidun al termine della battaglia di Nihāvand (642 d.C), preludio non solo della caduta dell’impero sasanide e dell’espansione araba nello scacchiere centro-asiatico, ma dell’inclusione di ogni ambito della vita quotidiana nella religione. Non è certo un caso che il 99,7% degli afghani segua i precetti rivelati dal profeta Maometto, né tantomeno che l’80% sia di confessione sunnita[2]. Altre minoranze presenti nel Paese sono quelle rappresentate dagli Sciiti, piuttosto diffusi tra gli elementi Hazara e Kizilbāsh (Turkmeni di lingua persiana), dai Sikh e dagli Indù, anche se prima del coinvolgimento sovietico esisteva, nei dintorni di Herat, una piccola comunità ebraica dedita a occupazioni di basso lignaggio quali il commercio e l’usura. Questo fenomeno di massiccia emigrazione non avrebbe interessato solamente i figli di Israele: si ritiene che circa un terzo degli abitanti censiti nel 1979 abbia scelto, nel corso degli anni ‘80, la via dell’esilio, e che da allora appena sei milioni abbiano fatto ritorno in patria[3].

LA CONCEZIONE DEL POTERE IN AFGHANISTAN

Il quadro finora delineato consente di ripercorrere le logiche che, al variare dei secoli, hanno condizionato il rapporto tra il centro e la periferia. A differenza di quanto accaduto per alcuni contesti più conosciuti, infatti, l’idea di potere non si è mai identificata in un luogo o in una persona specifica. Al contrario, essa ha trovato la propria sublimazione in una rete di grande complessità dove il prestigio dei khan, degli altri notabili e del clero restava subordinato alla munificenza mostrata verso i braccianti. È per tale ragione che ogni confronto con l’esperienza medievale risulta privo di fondamenta: se nei “secoli bui” il legame tra feudatari e vassalli si era retto su un vincolo di fedeltà, nel caso afghano l’autorità dei signori locali derivava invece dal qawm, espressione utilizzata per indicare l’unità elementare della società civile[4]. Una simile relazione sembrerebbe dunque ricalcare quello che il sociologo Max Weber (1864-1920) ha definito “potere carismatico”, basato sulla dedizione al carattere sacro e al valore esemplare di una persona che la rendono degna di svolgere le mansioni assegnatele.

Ciò che desta scalpore è constatare quanto, di fronte alle difficoltà vissute dallo Stato nell’ampliare la propria influenza, i gruppi comunitari siano riusciti a far breccia tra le crepe della macchina burocratica, ottenendo così il pieno riconoscimento delle loro prerogative. Emblematiche in tal senso sono state le peregrinazioni che, nella decade compresa fra il 1964 e il 1973, hanno interessato l’assemblea parlamentare, divenuta un luogo di contrattazione nel quale le ambascerie giunte dalle campagne si recavano per ottenere favori. Altro aspetto degno di nota è la compresenza di ordinamenti giuridici profondamente diversi fra loro come la Shari’a, ossia la legge sacra non elaborata dagli uomini perché imposta da Dio, e quello laico. La prima in particolare ha giocato un ruolo importantissimo nel rallentare la marcia di Kabul verso i lidi della modernità, divenendo nel corso degli anni il principio unificante attraverso cui ritagliarsi uno spazio di effettiva autonomia.

L’AFGHANISTAN NELL’IMMAGINARIO OCCIDENTALE

Perché il mito dell’inviolabilità afghana ottenesse la propria consacrazione bisognò attendere l’arrivo del XIX secolo, quando le dinamiche competitive dell’imperialismo europeo finirono col trasformarlo in uno dei fulcri più importanti del continente asiatico. Prima di allora, le notizie sulla regione e sulle popolazioni ivi stanziate erano spesso frammentarie, lacunose e inattendibili, vuoi perché frutto di un patrimonio storico-culturale le cui origini si perdevano nella notte dei tempi, vuoi perché sapientemente manipolate dagli stessi autori[5]. Lo scenario fin qui abbozzato fu rimesso in discussione solamente nel 1815 grazie agli sforzi profusi da Mountstuart Elphinstone (1779-1859), rampollo di una nobile casata e autore dell’opera «An account of the Kingdom of Caubul, and its dependencies in Persia, Tartary and India».

Oltre a dedicare un’attenzione certosina agli aspetti geografico, etnico e alla ripartizione del potere tra gli organi istituzionali, il diplomatico scozzese arricchì tali studi con riflessioni a carattere personale: nel biennio compreso fra il 1808 e il 1809, la delegazione posta sotto il suo comando era stata infatti trattenuta nella città di Peshawar[6]su ordine espresso dell’Emiro Shah Shuja (1785-1842), impegnato in una lotta feroce per consolidare il proprio dominio sul Paese. In quei mesi trascorsi all’insegna di una confortevole cattività, Elphinstone ebbe dunque modo di raccogliere informazioni utilissime sul carattere di questo popolo enigmatico, svelandone alcuni incredibili retroscena come la presunta discendenza dagli Israeliti:

«Gli storici afghani sono soliti raccontare che i figli di Israele, sia a Ghore che in Arabia, avessero mantenuto la loro consapevolezza dell’unità di Dio, nonché la purezza del credo religioso e che, all’apparizione dell’ultimo e più grande profeta (Maometto), avessero accettato l’invito dei loro fratelli Arabici , il cui capo era Khauled […] se considerassimo il modo semplicistico con cui le nazioni primitive hanno inventato resoconti favorevoli sul loro passato, temo che dovremmo accettare la discendenza degli afghani dagli ebrei così come quella dei Romani e dei britannici dai Troiani, e quella degli irlandesi dai Milesi o dai Bramini».

Lal. M., Life of the Amir Dost Mohammed Khan; of Kabul, Vol.1., Asian Educational Services, New Delhi, 2004. Traduzione a cura dell’autore.

Quarantatré anni dopo, il tema dell’Afghanistan sarebbe tornato di attualità grazie alla penna del famoso Friedrich Engels (1820-1895), pensatore il cui nome resta indissolubilmente legato alle analisi condotte sul modello capitalistico. Piuttosto espliciti risultano essere i passaggi relativi alla descrizione delle genti stanziate oltre il Passo del Khyber, «uomini coraggiosi, indipendenti e dediti in maniera quasi esclusiva alla pastorizia e all’allevamento», nonché al rapporto da esse instaurato col potere centrale:

«Per loro la guerra è un’impresa eccitante e una distrazione dalla monotonia delle attività abituali. Gli afghani sono divisi in clan, sui quali i vari capi esercitano una sorta di supremazia feudale. Soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono loro di diventare una nazione potente; ma questa stessa irregolarità e incertezza nell’azione li rende dei vicini pericolosi, capaci di essere sballottati dai venti più mutevoli o istigati da politici intriganti che eccitano astutamente le loro passioni».

Engels. F., Afghanistan, New American Cyclopaedia, Vol.1, New York, 1857.

L’opera prosegue con il resoconto delle manovre ordite dal governo di Londra e dalla Compagnia delle Indie Orientali, propedeutiche a neutralizzare la minaccia della Russia zarista sulla “perla dell’impero. Ciò che colpisce maggiormente, però, è la dovizia di particolari nel descrivere l’incompetenza della leadership britannica durante il conflitto del 1839-42[7], altro tassello fondamentale nella costruzione del mito dell’Afghanistan moderno.

Con l’intervento militare sovietico del dicembre 1979, la letteratura sull’argomento ha vissuto una stagione ancora più florida grazie all’impatto che tale vicenda ha avuto sull’opinione pubblica mondiale. A questo proposito, è opportuno rimarcare quanto la strumentalizzazione dell’episodio in chiave anti-russa, determinante nel presentare i mujāhidīn alla stregua di paladini impegnati in una lotta epica, non sia stata un’esclusiva del solo Occidente: piuttosto emblematico è il giudizio formulato da Enver Hoxha (1908-1985), all’epoca Segretario del Partito del Lavoro albanese, il quale attribuì all’insurrezione anti-marxista una sfumatura democratico-borghese:

«Come è risaputo, ci sono numerosi movimenti insurrezionali in Afghanistan guidati da patrioti che non vogliono né il giogo sovietico, né quello dei loro agenti, ma vengono ugualmente definiti musulmani, e il loro movimento patriottico anti-imperialista islamico […] l’Afghanistan è uno di quei Paesi dove la religione è ancora viva e attiva. Ma la religione non è l’unico fattore che spinge i popoli di questi Paesi ad impugnare le armi contro gli invasori. Naturalmente, essi non sono marxisti, ma sono patrioti che desiderano ardentemente liberare la loro patria, sono i rappresentanti della borghesia democratica. Non vogliono vivere sotto il giogo degli stranieri, a prescindere dal fatto che le loro idee sono ancora molto lontane dalle idee della rivoluzione democratico-borghese per poter concretizzarsi in profonde riforme nell’interesse dei loro popoli».

Hoxha. E., Riflessioni sul Vicino e Medio Oriente, 8 Nentori Pub. House, Tirana, 1984.

Per quanto antitetiche possano sembrare sotto il profilo storico-letterario e nelle finalità perseguite, le suddette ricostruzioni trovano una base comune nel riconoscimento dell’unicità afghana. Del resto, agli occhi di un osservatore cresciuto nella civilissima Inghilterra o coltivando le velleità di riscossa del proletariato, lo Stato centro-asiatico sarà parso una terra sospesa nel tempo dove i processi di accentramento, secolarizzazione e ammodernamento non avevano mai preso piede.

In sintesi, è lecito affermare che le incomprensioni circa la natura di questo Paese nascano dalla pretesa, assolutamente infondata, di poterlo decifrare in base a criteri che non hanno riscontri in una società ancora tribale, la cui idea di libertà si è concretizzata in un rifiuto implacabile verso qualsiasi dinamica passibile di turbare lo status-quo. Sottovalutare questo aspetto obbligandolo ad abbracciare dei disegni palingenetici, poco importa se volti all’affrancamento degli oppressi o all’edificazione di una democrazia liberale, significa sfidare apertamente un sistema che si è cristallizzato nel corso dei secoli, accettando così di incorrere in terribili episodi di disubbidienza civile.

Niccolò Meta

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Dato tratto dall’indice digitale The World Factbook.

[2] I dati poc’anzi citati sono il frutto delle ricerche condotte dallo Swedish Committee for Afghanistan (SCA), un’organizzazione non governativa fondata nel 1980 in risposta all’invasione sovietica del Paese.

[3] Runion. M.L., The history of Afghanistan, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara, 2007, p.8.

[4] Nonostante l’estrema somiglianza, il qawm e la tribù non sono la medesima entità.

[5]  Il pensiero non può che andare ai vari Erodoto, a Marco Polo, al monaco buddhista Xuanzang, allo storiografo persiano Muhammad Qasim Hindu Shah e a molti altri ancora.

[6] Oggigiorno situata in territorio pakistano, n.d.a.

[7] Di questo episodio ci occuperemo, in maniera più approfondita, nel prossimo articolo.

6 pensieri riguardo “Perché è così difficile controllare l’Afghanistan?

  1. ottima ottima analisi!
    Spiega la base su cui si son creati molti fatti che quei giornalai dei Media ignorano o non badanoa a raccontare
    Fa porre due domande:
    – cosa succederà?
    – cosa si sarebbe dovuto fare?
    AC

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    1. Grazie mille, Aldo! Felicissimo che il pezzo sia stato apprezzato e che, nei limiti del possibili, abbia contribuito a fare un po’ di luce su una tematica estremamente complessa.

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  2. Complimenti per come hai semplificato un argomento estremamente complesso. Ottimo articolo.

    Piace a 1 persona

    1. Grazie di cuore, Carlo! Felicissimo che l’articolo sia piaciuto!

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  3. Marco GENNARO 23 agosto 2021 — 11:52

    Molto interessante, grazie. In un territorio così complesso e variegato, tutto può accadere. Mi chiedo quanto la spinto cinese e russa, nuovamente, possa portare cambiamenti reali. Mi sa dire quanto sarebbe la mortalità infantile, nel corso dei vari periodi?

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    1. Ciao Marco, grazie per aver commentato!
      Il ritiro statunitense lascerà sicuramente un ampio margine di manovra alla Cina e alla Russia, interessate a colmare il vuoto di potere instauratosi nella zona. Se questo condurrà a dei cambiamenti nella fisionomia dell’Afghanistan, però, è molto difficile da pronosticare.
      Bisogna innanzitutto tenere conto del “fattore Talebani”, i quali non accetteranno alcun tipo di ingerenza da parte di attori esterni (poco importa se promotori di investimenti idonei a rilanciare l’economia nazionale); in secondo luogo, i cambiamenti culturali possono essere interiorizzati solo dopo un lungo periodo di tempo, e non è detto che la società afghana sia pronta per un simile passo.
      Con riferimento al tasso di mortalità, ti suggerisco quest’ottimo sito dove si prende in analisi il periodo compreso fra il 1962 e il 2019.
      Un saluto!

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