Rispetto alle grandi promesse che avevano accompagnato l’inizio della parabola repubblicana (17 luglio 1973)[1], il regime di Mohammed Daoud Khan (1909-1978) aveva palesato una grave incapacità nel relazionarsi coi principi dello Stato di diritto, fallendo nell’implementare le misure indispensabili al decollo socio-economico dell’Afghanistan. Non meno allarmante risultava essere la scarsa rappresentatività dell’assemblea legislativa, cruciale nell’alimentare il malessere di quelle frange che stentavano a identificarsi nell’establishment[2].
La graduale liberalizzazione dello scacchiere politico aveva tuttavia agevolato, a cavallo fra gli anni ’50 e ‘60, l’ascesa di nuovi attori istituzionali quali il Partito Democratico Popolare (PDPA), fondato dai militanti marxisti Babrak Karmal (1929-1996) e Nur Mohammad Taraki (1917-1979). Quest’ultimo in particolare si era già distinto nei ruoli di giornalista e di scrittore prosaico, qualità che lo avevano reso il candidato perfetto per dirigerne l’organo di stampa, il Khalq, grossomodo traducibile con “Popolo” o “Massa”[3] .
Di lì a breve, il PDPA si sarebbe reso protagonista di un primo colpo di scena favorito dall’acuirsi delle lotte intestine: l’ala Khalq e il suo storico leader, Taraki, avevano infatti prospettato una conquista del potere in chiave leniniana, ossia tramite un’azione violenta a opera di una ristretta élite rivoluzionaria; al contrario, Karmal e i suoi seguaci riconoscevano l’inattuabilità di un simile progetto vista l’arretratezza del Paese, condizione superabile attraverso l’edificazione di un vasto fronte animato da sentimenti nazional-patriottici. Questa seconda corrente, meglio conosciuta con l’appellativo di Parcham (letteralmente “Bandiera” o “Vessillo”), si sarebbe distaccata dall’associazione durante il 1967, salvo poi riconfluirvi nella decade successiva.
LA RIVOLUZIONE DI SAUR E L’AVVENTO DELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA (1978-1979)
Stando al giudizio formulato da uno dei massimi esperti dell’argomento, l’archeologo e studioso statunitense Louis Dupree (1925-1989), il percorso che avrebbe condotto alla Rivoluzione di Saur fu scandito da un insieme di circostanze favorevoli, e non da una visione di lungo periodo.
In ogni caso, la scintilla dell’episodio fu innescata il 17 aprile 1978, quando il dirigente comunista Mir Akbar Khyber (1929-1978) venne assassinato mentre faceva ritorno a casa. Ancora oggi non vi sono reali certezze sull’identità dei mandanti: il governo avrebbe addossato la colpa all’Hizb-i Islami, un’organizzazione composta da accademici e studenti decisi a sradicare la minaccia marxista, mentre Taraki e gli esponenti dell’intelligencija accusarono direttamente il Premier. Nei suoi scritti, Dupree ha invece suggerito il nome del ministro Abdul Qadir Nuristani, personaggio ben noto per il rigore mostrato nell’esercizio delle proprie mansioni, oltre che per l’odio irriducibile verso il movimento di sinistra.
La morte dell’intellettuale diede comunque il via a una lunga serie di manifestazioni che raggiunsero l’acme appena 48 ore dopo: il giorno delle esequie, un corteo di 15.000 persone avrebbe invaso le strade di Kabul intonando slogan anti-americani, dettaglio che non mancò di suscitare lo sgomento degli osservatori presenti; allarmato da una partecipazione così numerosa, l’esecutivo tentò allora di stroncare l’iniziativa imprigionando i vertici del PDPA, inconsapevole di come Hafizullah Amin[4] (1929-1979) avesse già preso contatti con degli ufficiali simpatizzanti[5]; nelle giornate seguenti, si procedette quindi all’elaborazione di un piano per abbattere l’establishment con un’azione risolutiva, fissata per la mattinata del 27 aprile.
A differenza di quanto accaduto nel ’73, la Rivoluzione di Saur[6] fu un evento sanguinoso come testimoniarono l’intervento dell’aviazione e l’assassinio di Daoud, bilancio al quale Dupree sommerebbe un altro migliaio di vittime.
PAROLA D’ORDINE: RIVOLUZIONARE L’AFGHANISTAN
Nelle dichiarazioni rilasciate all’indomani del golpe, i rappresentanti della Repubblica Democratica (RDA) rimarcarono non solo l’estraneità all’ideologia comunista, ma che le politiche prossime all’adozione avrebbero trovato fondamento nel nazionalismo afghano, nell’osservanza dei precetti islamici e nel rispetto degli accordi internazionali. Nondimeno, la coalizione Khalq-Parcham si mosse tempestivamente per creare una cornice propedeutica a legittimarne l’operato: nella giornata del 30 aprile, i 35 membri del Consiglio Rivoluzionario[7] approvarono il Decreto n.1, stabilendo che la RDA sarebbe stata amministrata in base alle direttive dell’organo collegiale e che Taraki, “grande leader nazionale e rivoluzionario dell’Afghanistan”, avrebbe cumulato le funzioni di Presidente e di Primo Ministro. Ventiquattro ore dopo fu la volta del Decreto n.2, relativo alla selezione di 21 personalità chiamate a far parte della squadra di governo. A tal proposito, è opportuno sottolineare come il nuovo Gabinetto si fosse fin da subito messo in luce per l’età media dei componenti, compresa tra i 45 e i 50 anni. Prosegue Dupree, nel saggio intitolato Afghanistan under the Khalq:
Oltre al fattore età, emergono alcune caratteristiche interessanti quando si suddivide la membership dell’esecutivo per formazione, appartenenza partitica e gruppo etnolinguistico:
Dupree.L., Afghanistan under the Khalq, «Problems of Communism», vol.28, no.4, 1979, p.40
undici ministri sono Khalq, ma due di loro si consideravano indipendenti alla vigilia del colpo di Stato; dieci membri appartengono ai Parcham; altrettanti hanno ricevuto un’istruzione avanzata negli USA; due in Egitto; uno ciascuno in Francia e nella Germania occidentale; quattro hanno studiato esclusivamente in Afghanistan;
solo i tre militari hanno ricevuto una formazione nell’URSS, e si ritengono nazionalisti piuttosto che filo-russi.
Parimenti, per garantire la presa sul tessuto sociale venne impiegata una duplice strategia volta a promuovere le élites emergenti, smantellando quelle affiliate al vecchio regime. Nell’arco di pochi mesi, le carceri non si sarebbero soltanto riempite dei superstiti della famiglia reale, ma di tecnocrati altamente qualificati, “colpevoli” di aver occupato posizioni di responsabilità durante la prima parentesi repubblicana. La RDA avrebbe in seguito provato a sostituirli con il personale dell’organizzazione, ignorando il fatto che molti di essi non disponevano delle competenze necessarie. A ciò bisognava aggiungere l’esiguità degli iscritti al partito (le stime a riguardo sono molto vaghe, spaziando dalle 10.000 alle 50.000 unità), decisiva nel rendere l’amministrazione statale inefficiente e lacunosa.
LE PRIME CREPE NEL FRONTE GOVERNATIVO, TRA VELLEITÀ DI RIFORMA E REPRESSIONE DEL DISSENSO
Pur avendo conquistato il potere in tempi tutto sommato brevi, il PDPA dovette ben presto fare i conti con la propria natura litigiosa e dualistica. Indispensabile per comprendere i motivi di questi malumori è l’analisi dei trascorsi che orientarono l’attività dei dirigenti, cresciuti in contesti politici affini ma, in egual misura, separati dall’indottrinamento cui erano stati sottoposti.
Volgendo uno sguardo alla carriera di Babrak Karmal, è possibile riscontrare una certa adattabilità nel seguire il corso degli eventi: dote che, assieme all’ambizione smodata, lo aveva reso un avversario formidabile agli occhi dei Khalq. Dopo aver guidato l’ala sinistra del fronte studentesco, il futuro Presidente aveva infatti svolto un ruolo trainante nella secessione della minoranza Parcham (1967), portando con sé figure di rilievo quali il summenzionato Khyber, il poeta Mohammad Suleyman Laek e la dottoressa Anahita Ratebzad. Fin dal 1963, egli aveva peraltro giocato la carta della cooptazione nelle strutture liberali, partecipando in maniera energica al dibattito parlamentare. Una linea d’azione non condivisa dagli esponenti della seconda frangia, fautrice di un approccio più defilato grazie all’opera di reclutamento nei quadri delle forze armate, dei dipendenti pubblici e degli insegnanti attivi nelle zone rurali.
Nondimeno, il rapido esaurimento della parentesi democratica lo aveva spinto ad abbracciare le trame sovversive di Daoud, salvo poi cadere vittima dei suoi stessi intrighi[8]. Già a partire dal 1975, l’immagine del movimento presso gli ambienti cittadini risultava irrimediabilmente compromessa, preludio di una riappacificazione con l’ala intransigente e dell’ascesa di Babrak al rango di Vice-Primo Ministro. Se da un lato il conseguimento di una carica così ambita rappresentava un traguardo apprezzabile, dall’altro l’intensificarsi delle lotte interne offrì un potente stimolo per cercare il supporto di alleati come il colonnello Abdul Qader, l’eminenza grigia dietro ai putsch del ’73 e del ’78. Tali sforzi non sarebbero però sfuggiti ai loro colleghi, solerti nel confinarli nel ruolo di semplici ambasciatori.
Più cruenta si dimostrò l’offensiva ingaggiata contro i nazionalisti, spesso condotta con metodi discutibili quali la fabbricazione di prove e il ricorso alla violenza fisica. A farne le spese furono il medesimo Qader, il ministro per l’educazione Mohammad Rafi e quello per la Pianificazione Economica, Sultan Ali Keshtmand, mentre il responsabile per gli Affari di Frontiera, Nizamuddin Tahzib, venne condannato agli arresti domiciliari. Le presunte confessioni furono trasmesse su larga scala grazie al servizio di broadcasting offerto da Radio Kabul, determinante nel dipingere Karmal alla stregua di un losco burattinaio.
È utile segnalare che il periodo in cui Amin e Taraki monopolizzarono l’agone politico sia coinciso, per sommi capi, con una delle stagioni più sanguinose e repressive della storia afghana. Per cogliere appieno la portata del terrore che caratterizzò quegli anni, è sufficiente dare un’occhiata alle dichiarazioni rilasciate dagli emissari del nuovo governo che, in una nota del febbraio del 1980, riconobbero l’esecuzione di almeno 12.000 civili. Tali cifre costituivano in verità una mera percentuale delle persone scomparse, nello specifico quelle transitate nella prigione di Pul-i Charkhi: secondo le stime più accreditate, il numero effettivo si aggirerebbe piuttosto fra i 50.000 e i 100.000 morti.
Cominciata nell’autunno del 1978, la campagna di arresti trovò dei bersagli privilegiati nell’alto clero, negli intellettuali maoisti e nei militanti Parcham, ossia in chiunque fosse estraneo all’etnia Pashtun. Non fu certo un caso se, agli arresti eseguiti dai “gruppi di sicurezza” in base alle delazioni e ai sospetti agitati dal KHAD (Agenzia di Intelligence Statale), si aggiunse la liquidazione di interi villaggi come accaduto nelle province di Samangan, Kunar, Darrah-yi Souf e Farah.
LE GRANDI INIZIATIVE PALINGENETICHE: DALLA RIFORMA AGRARIA…
Una volta assunta le leadership, le autorità comuniste si occuparono degli ambiziosi programmi di trasformazione socio-economica del Paese. Con il decreto n.3 (4 maggio 1978) venne abrogata la legge fondamentale del 1977, stabilendo al suo posto l’iter da seguire fino alla convocazione dell’assemblea costituente. Questo provvedimento attribuiva, in ultima istanza, l’esercizio del potere a un tribunale chiamato a esprimersi sui reati commessi contro la Rivoluzione.
Il 12 giugno furono invece approvate le disposizioni relative all’aspetto della nuova bandiera, rossa con inserti dorati (Decreto n.4); alla revoca della cittadinanza per ventitré membri della famiglia reale (Decreto n.5); all’estirpazione, nelle aree rurali, della pratica dell’usura (Decreto n.6). Il Decreto n.7 (17 ottobre 1978) sancì la parità di diritti fra uomo e donna, invero concessione sperimentata nei testi costituzionali precedenti, regolamentando l’istituto della dote, le spese per i matrimoni e abolendo la prassi delle unioni combinate. Per concludere, il n.8 formalizzò la suddivisione delle terre tramite cooperative incaricate di fornire crediti, fertilizzanti e molto altro ancora.
Per raggiungere gli obiettivi e ampliare la base di supporto, l’entourage di Taraki adottò una triplice linea costruita sulla repressione del dissenso, sul varo della già citata riforma agraria e sulla lotta all’analfabetismo. A tal proposito, è interessante riportare quanto scritto da Olivier Roy nel libro Islam and Resistance in Afghanistan, dove le ragioni del loro fallimento venivano ricondotte a una conoscenza approssimativa del pensiero marxiano, all’inabilità nel decifrare la situazione socio-politica e, soprattutto, alla pretesa infondata di aver realizzato un tipo di socialismo «adatto ai Paesi del Terzo Mondo, senza fasi intermedie»[9].
Stando ai teorici del PDPA, la società afghana poteva ritenersi feudale perché i contadini (dehqan) erano sfruttati da una cerchia ristretta di proprietari terrieri, i khan, coadiuvati dall’elemento clericale. Quest’ultimo si sarebbe servito della religione per esercitare il proprio monopolio sulla vita dei braccianti, congiuntura che aveva sollecitato l’intervento di alcuni “rivoluzionari di professione” per guidare il passaggio dalla “classe in sé” a quella “per sé”. Una simile opera d’illuminazione avrebbe quindi garantito al regime la fedeltà incondizionata delle masse, finalmente risvegliate dal torpore nel quale erano cadute secoli prima.
Pur basandosi su principi incontestabili come, ad esempio, l’abolizione del sistema ipotecario e la confisca degli appezzamenti che avessero superato i sei ettari, la volontà di presentarla sul piano ideologico si rivelò un errore grossolano. Precisa Roy:
Ciò che era ingiusto per un contadino non era il possesso della proprietà in sé, ma l’abuso di potere, sia sotto forma di denaro (usura), sia attraverso l’esercizio della potestà (autoritarismo e corruzione).
Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p.87.
Un’ulteriore prova della superficialità con cui l’intero disegno venne portato avanti trasparve, in modo piuttosto palese, nella descrizione delle pietre angolari sulle quali poggiava lo sfruttamento dei lavoratori, ossia la famiglia nucleare e la vastità dei poderi. Oltre a denotare una scarsa conoscenza degli usi e dei costumi del proprio popolo (gli afghani vivono in comunità di tipo patriarcale), tale approccio sembrava ignorare che lo strapotere dei latifondisti si era materializzato sotto forma della distribuzione delle sementi, delle attrezzature agricole e nella regolamentazione dell’accesso alle fonti idriche. Pertanto, la riassegnazione dei terreni tenendo conto della sola estensione rappresentava un espediente inefficace, utile soltanto ad alimentare l’ostilità di chi era stato colpito dai provvedimenti espropriativi.
I problemi legati alla scomparsa della mezzadria furono per giunta esacerbati dalla condotta degli ex concedenti, restii a fornire il necessario per arare i campi e impossibilitati, dopo l’abolizione dell’usura, nell’erogare prestiti. Altrettanto discutibile fu la decisione di trasferire i braccianti nelle aree appena requisite, spesso distanti centinaia di chilometri e quasi mai idonee ad accoglierli vista la mancanza di infrastrutture, aiuti finanziari e supporto logistico.
…ALLA LOTTA ALL’ANALFABETISMO
Non meno importante nell’ottica di questo processo palingenetico fu la lotta all’analfabetismo e alla superstizione religiosa. Fissata per il 1979, la campagna per l’istruzione obbligatoria cominciò con sette mesi d’anticipo grazie all’invio di 18.500 docenti, 16.000 dei quali volontari scelti sulla base di criteri non troppo restrittivi. Muniti di un manuale approvato dal regime e imbevuto di retorica marxista, ciascuno di loro si sarebbe dovuto recare nei villaggi per istruire le masse senza distinzione di sesso, età e provenienza sociale. Secondo le stime elaborate da Kabul, l’impegno avrebbe richiesto non più di 150 ore pro-capite.
Quando si analizzano le dinamiche associate a progetti così temerari e invasivi, specialmente se l’ambito di applicazione si differenzia in netta misura dai contesti cui siamo soliti rapportarci, risulta facile approdare a semplificazioni eccessive o addirittura banali. Tra i miti più difficili da demolire svetta l’impermeabilità del popolo afghano ai tentativi di scolarizzazione promossi dallo Stato, a sua volta presentato alla stregua di un attore poco propenso nell’investire capitali. Al contrario, gli abitanti delle campagne palesarono in molteplici occasioni il desiderio di apprendere i rudimenti della grammatica, tendenza favorita dagli sforzi economici profusi dalla monarchia e dalla repubblica. Riporta Olivier Roy:
Si ritiene che, sotto l’amministrazione precedente, il 30% dei ragazzi e il 5% delle ragazze avesse ricevuto un’istruzione, e che entrambe le stime stessero crescendo.
Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p.93.
Pertanto, la resistenza ai disegni pedagogici non affondava nei presupposti concettuali, ma nelle modalità con cui si erano concretizzati: i professori, invero studenti universitari o allievi dei politecnici, avevano spesso mostrato comportamenti sprezzanti quando non autoritari, affronto intollerabile in una società dove il rispetto per la gerarchia ha sempre svolto una funzione centrale. Allo stesso modo, la pretesa per cui gli anziani dovessero frequentare le lezioni costituiva una fonte di grave disagio, così come il riconoscimento del diritto delle donne allo studio[10].
L’INSURREZIONE ANTI-GOVERNATIVA (APRILE-DICEMBRE 1979)
L’escalation della mobilitazione anti-governativa subì una drastica impennata agli inizi del ’79, dapprima assumendo i contorni ben noti della sollevazione tribale, e solo in seguito maturando una sfumatura ideologica. Per comprendere i motivi dietro a un periodo di “incubazione” tanto lungo, è imperativo tener conto delle pratiche che per secoli hanno scandito l’esistenza del popolo afghano, assorbito nella raccolta delle mèssi e nella transumanza delle mandrie. Con l’arrivo dell’autunno e l’interruzione delle attività poc’anzi descritte, il malessere delle campagne sarebbe degenerato in fenomeni di aperta ribellione, destinati a propagarsi con estrema rapidità. Persino il cuore della Repubblica Democratica, Kabul, venne colpito da una sequela di attentati dinamitardi.
Piuttosto emblematica fu la rivolta delle tribù nuristane a nord di Jalalabad (luglio 1978): cominciata con un assalto alla stazione di guardia presieduta da alcuni funzionari governativi, nei mesi seguenti si sarebbe estesa alle valli di Waygal, Kamdesh e Ramgal. Quando in ottobre furono espugnati altri due avamposti, l’esecutivo decise finalmente di intervenire distribuendo armi ai gruppi ostili ai Nuristani, offrendosi addirittura di supportarli con un battaglione meccanizzato. Tali operazioni sarebbero procedute in maniera spedita finché, al termine di uno scontro campale consumatosi in febbraio, la coalizione delle tre vallate non distrusse il piccolo reparto, siglando una pace separata con le altre comunità.
Nel marzo del 1979, i ribelli avevano oramai consolidato il loro controllo sull’intera provincia del Kunar, ponendo non solo le premesse per la nascita dello Stato libero del Nuristan, ma anche per una situazione difficilmente gestibile per la RDA. Appena qualche settimana dopo, circa metà del territorio nazionale sarebbe infatti passato in mani nemiche, condizione resa ancora più critica dalle diserzioni che stavano dissanguando le forze armate.
A fronte di una simile congiuntura, Taraki si sarebbe appellato al Segretario Generale del Partito Comunista sovietico, Leonid Brèžnev (1908-1982), affinché autorizzasse il dispiegamento delle truppe nel Paese. La risposta fu, almeno in un primo momento, negativa.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Approfittando dell’assenza del re, il cugino e tenente generale Mohammed Daoud Khan aveva orchestrato un golpe non violento per abbattere la monarchia (17 luglio 1973). Alla sua origine figuravano una moltitudine di concause quali il cronico sperpero di risorse, conseguenza della corruzione dilagante in ogni meandro della macchina statale; l’incostanza della Corona nell’implementare le normative costituzionali; il timore per cui i movimenti liberali e marxisti indebolissero le fondamenta dello Stato.
[2] Uno degli indicatori più eloquenti dell’arbitrarietà governativa fu la crisi del 18 marzo 1977, durante la quale la decisione del Premier di nominare personalmente i membri del Comitato Centrale (Shura Marzaki) determinò, in modo piuttosto prevedibile, le dimissioni di sei ministri.
[3] Edite dal poeta Bareq Shafiiee, le prime sei uscite tratteggiavano quello che sarebbe divenuto il programma dell’associazione, allineandola alle forze del mondo socialista. Le pressanti richieste per la riforma della proprietà agraria e per la socializzazione dell’economia, tuttavia, spinsero l’Ufficio del Procuratore Generale a ordinare la chiusura della testata (1966).
[4] Nato il 1 agosto 1929 a Paghman, città a forte maggioranza Pashtun, Hafizullah Amin è stato una delle figure chiave all’interno del PDPA. Ex luogotenente di Taraki, ha ricoperto il ruolo di Presidente della Repubblica Democratica Afghana dal 14 settembre al 27 dicembre 1979. Venne assassinato dai reparti speciali sovietici nel corso dell’operazione Štorm 333.
[5] La prova evidente dell’impreparazione governativa emerse dalla scelta di confinare Amin agli arresti domiciliari; disposizione, questa, non applicata ai suoi parenti, che poterono perciò usufruire della massima libertà per scambiare informazioni con gli altri congiurati.
[6] La Rivoluzione di Saur deve il proprio nome al secondo mese dell’antico calendario persiano.
[7] Il Consiglio Rivoluzionario ha rappresentato, nel periodo compreso fra il 1978 e il 1992, l’organo supremo della Repubblica Democratica dell’Afghanistan. Modellato sulla falsariga del Soviet Supremo, la sua funzione primaria consisteva nell’avallo delle decisioni maturate dal Presidium.
[8] Memore del contributo prestato nell’abbattimento della monarchia, il premier Daoud autorizzò l’invio di 160 militanti Parcham affinché svolgessero la mansione di amministratori provinciali. Per quanto incredibile possa sembrare, una simile manovra rientrava all’interno di una strategia ad ampio respiro volta a indebolire l’opposizione, confinandola nelle aree rurali. Lì, infatti, il predominio dei grandi proprietari terrieri e la diffidenza dell’elemento popolare ne avrebbero smorzato l’entusiasmo, trasformandoli in una cricca ancora più inetta e corrotta della precedente.
[9] Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p.84.
[10] È interessante sottolineare come, in quest’ultimo caso, il principale motivo di sdegno risiedesse nella creazione di classi miste. Oltretutto, la cronica mancanza di istitutrici obbligava i loro colleghi a presiedere agli insegnamenti, soluzione che non aveva mancato di suscitare il risentimento di quanti temevano influenze negative.
L’ha ripubblicato su La Minerva.
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