Il caso “Foxbat”: un thriller della Guerra Fredda

VOLPI VOLANTI E TIGRI DI CARTA

È un comportamento piuttosto ricorrente quello che porta gli esseri umani a disprezzare ciò che avevano temuto o idolatrato senza una ragione fondata. Se è vero infatti che l’apparenza può ingannare spingendoci verso conclusioni che si discostano sensibilmente dalla realtà, una volta che queste tigri di carta hanno palesato la loro vera natura finiamo, inevitabilmente, per approdare a considerazioni opposte. Dopotutto è proprio qui che risiede la forza dei miti, positivi o negativi che siano: nell’alone di solennità che siamo soliti attribuir loro in quanto verità rivelate; dogmi che, pur essendo il frutto della mente umana, non necessitano di spiegazioni o di controprove convincenti. Partendo da tali considerazioni, tratteremo uno degli errori di valutazione più clamorosi commessi dall’intelligence occidentale nel corso della Guerra Fredda, il confronto politico, ideologico e militare che per quasi mezzo secolo contrappose gli USA e l’URSS. Ci riferiamo al caso del MIG-25 “Foxbat”, considerato per circa un decennio il miglior velivolo da combattimento al mondo a causa dei resoconti allarmanti stilati dagli analisti militari, nonché per la fitta coltre di segretezza che ne aveva accompagnato lo sviluppo sin dal 1959.

LA SCOPERTA

L’esistenza di questo aviogetto divenne nota al termine della mostra aerea tenutasi, in via del tutto eccezionale, il 9 luglio 1967 all’aeroporto di Domodedovo, manifestazione voluta insistentemente dalle autorità sovietiche per commemorare il cinquantesimo anniversario della Rivoluzione bolscevica (ottobre 1917). In una dimostrazione di forza e supremazia tecnologica destinata a non aver eguali nella storia del Paese, Mosca rivelò al grande pubblico assiepato sugli spalti[1] gli ultimi ritrovati della propria industria bellica: lo spettacolo offerto dai simulacri degli aeroplani, degli elicotteri e dei missili in parata venne peraltro arricchito dai numeri delle pattuglie acrobatiche e dei reparti aviotrasportati, protagonisti di manovre così brillanti da lasciare senza parole sia gli esperti che i profani. Fu tuttavia il gran finale a catturare l’attenzione dei presenti, impegnati a scrutare il limpido cielo estivo che proprio in quel momento veniva attraversato da tre enormi jet. Quando l’annunciatore ne svelò alcune delle strabilianti capacità, nello specifico quella di infrangere il muro dei 3.000 chilometri orari raggiungendo quote superiori ai 25.000 metri, la dichiarazione venne accolta con un comprensibile moto di stupore.

Nei mesi seguenti, il servizio di spionaggio americano tentò senza successo di raccogliere maggiori indiscrezioni sulle caratteristiche dell’aeromobile, partorita dalle menti dei progettisti della Mikoyan-Gurevich e ribattezzata “Foxbat[2] in osservanza della terminologia in codice NATO. Secondo gli esperti del Pentagono, il MIG-25 era un caccia da superiorità aerea dotato di un’eccellente manovrabilità grazie all’ampia apertura alare, propedeutica alla riduzione del carico esercitato sulla stessa superficie per ogni metro quadro, e ai potentissimi motori a reazione. Inoltre, il muso lungo e spazioso suggeriva la presenza di un grande radar a lungo raggio.

Sempre in accordo con queste congetture, il raggiungimento di prestazioni così estreme doveva essere garantito da una costruzione leggera e, al tempo stesso, capace di resistere alle elevate temperature imposte dal volo trisonico, magari mediante il ricorso estensivo a materiali strategici come il titanio. In altre parole, i sovietici avevano realizzato una macchina di gran lunga superiore rispetto a quanto l’Occidente potesse schierare all’epoca, la proverbiale pallottola d’argento in grado di riportare il pendolo della supremazia aerea dalla loro parte. Lo shock causato dall’esibizione di Domodedovo fu tale da spingere gli Stati Uniti ad accelerare il programma F-X per un nuovo aeroplano da combattimento, destinato negli anni successivi ad evolversi nell’iconico F-15 “Eagle”.

LA CONSACRAZIONE DEL MITO

La segretezza che avvolgeva il MIG e la sua scomparsa dalla scena pubblica favorirono, in un primo frangente, la distensione di quel clima di autentica isteria delineatosi dopo il luglio del ’67. Del resto gran parte delle preoccupazioni di Washington erano assorbite dall’andamento negativo della Guerra nel Vietnam (1964-1975), entrata nel suo periodo più “caldo” in seguito all’escalation militare avallata dal presidente Lyndon B. Johnson (1908-1973), mentre i successi riportati da Israele nella Guerra dei Sei Giorni (1967) e in quella d’Attrito (1967-1970) sembravano confermare la superiorità dei prodotti aeronautici occidentali. Nessuno poteva prevedere che la musica sarebbe di lì a poco cambiata, né tantomeno che sarebbero stati i russi a scegliere le note sulle quali ballarla.

Nella giornata del 10 ottobre 1971, due jet decollati da un aeroporto in Egitto violarono lo spazio aereo israeliano per condurre una missione ricognitiva sul Sinai, imbattendosi in un paio di F-4 “Phantom” che avevano ricevuto l’ordine di abbatterli. Ma fu tutto inutile: i contatti erano ormai fuori portata e di ritorno alla base, senza che nessuno potesse più infastidirli. Quando il 6 novembre si ripeté lo stesso identico episodio, i caccia con la Stella di Davide erano già pronti e in posizione d’attacco: una volta adottato un profilo d’ingaggio frontale, lanciarono i propri missili da una quota di 13.000 metri mentre l’aviogetto si teneva costante sui 24.000. Sembrava fatta, ma con indicibile orrore i piloti e il personale di terra constarono la facilità con cui l’aeroplano si sottrasse al raggio letale delle esplosioni, accelerando oltre Mach 3,2 (3.400 chilometri orari)[3]. Non vi era più alcun dubbio sulla natura degli aggressori, appartenenti a un’unità composta da avieri sovietici che operavano sui cieli d’Israele per conto degli egiziani[4], né tantomeno sulle loro capacità belliche: il nome del Foxbat era entrato di diritto nella leggenda.

Il quadro finora descritto sembrò conferire solidità alle impressioni maturate dagli analisti occidentali, la prova innegabile del sorpasso compiuto da Mosca in ambito aerospaziale e tecnologico. Come se ciò non fosse bastato, la notizia secondo la quale la produzione del MIG era appena entrata a pieno regime, confermata dalla consegna di vari esemplari alle forze aeree di quei Paesi allineati con l’URSS, contribuì a seminare ulteriormente il panico. Nessuno aveva fatto però i conti con un personaggio destinato a diventare, suo malgrado, una delle icone più celebri della Guerra Fredda: il tenente Viktor Ivanovich Belenko.

LA GRANDE FUGA DI BELENKO

Viktor Ivanovich Belenko (Fonte: Wikimedia)

Nato nel febbraio del 1947 a Nal’čik da una famiglia di origini ucraine, all’età di diciotto anni Belenko era entrato in quella branca dell’aviazione investita del compito di proteggere lo spazio aereo nazionale, le Truppe di difesa aerea (V-PVO). Qui aveva avuto modo di provare il MIG-25 imparando a conoscerne i segreti e le limitazioni, qualità che in seguito si sarebbe rivelata determinante per la decifrazione di questo bimotore così enigmatico. Nondimeno, la fruizione dei numerosi benefit derivanti dal suo status non sarebbe bastata a placare quel sentimento di malessere covato nei confronti di un sistema tutt’altro che meritocratico: l’appartenenza a una minoranza etnica sospettata di slealtà verso la causa comunista, infatti, aveva contribuito a sbarrargli la strada verso i gradi più alti della gerarchia militare, mentre le difficoltà matrimoniali e la mancanza di figli rendevano i suoi legami con la madrepatria assai fragili. Questa miscela esplosiva, alimentata dal mito dell’Occidente e dal benessere ivi imperante, contribuì in ultima istanza alla maturazione di una scelta che ne avrebbe cambiato per sempre la vita: quella di disertare.

Nella giornata del 6 settembre 1976, Belenko e altri commilitoni decollarono dall’aeroporto di Čugujevka, sperduto tra le lande desolate dell’Estremo Oriente russo, per effettuare quella che in apparenza sembrava un’esercitazione di routine. Dopo essersi attenuto al piano di volo stabilito durante il briefing, l’aviatore approfittò di un momento di distrazione dei suoi colleghi per uscire dalla formazione dirigendosi, con una profonda picchiata, verso il Mare del Giappone. Qualcuno pensò a un’avaria del MIG o a un malore del suo occupante, certamente non a un tentativo di defezione, anche se in passato si erano già verificati episodi analoghi, non sempre premiati dal successo.

La destinazione finale per un viaggio così pericoloso doveva essere la base di Chitose, l’unica dotata di una pista abbastanza lunga da accogliere il velivolo e, al tempo stesso, iscritta nel raggio d’azione di questo; tuttavia, le condizioni imposte dal volo a bassa quota e ad alta velocità per sfuggire ai radar comportarono un consumo anomalo del carburante, obbligando il pilota a ripiegare sull’aerodromo della città di Hakodate. Quando la sagoma dell’apparecchio uscì dalle nuvole materializzandosi all’orizzonte, il personale di terra pensò immediatamente a un attacco a sorpresa: solo in seguito ci si accorse che l’intruso era disarmato, tanta era stata la paura.

L’atterraggio di Belenko fu tutt’altro che impeccabile: dopo aver compiuto tre giri completi della pista in attesa che si liberassero le vie di rullaggio, il disertore avviò la procedura di rientro sfruttando al meglio delle proprie possibilità le ultime stille di kerosene, sufficienti ad alimentare i motori per appena altri trenta secondi. Seppur rallentata dal dispiegamento del paracadute frenante, la folle corsa del “Foxbat” terminò 240 metri oltre la distesa di asfalto, dopo aver miracolosamente evitato la collisione con un aeroplano di linea che aspettava l’autorizzazione al decollo. Nei minuti successivi, uno stuolo di curiosi si sarebbe riversato attorno all’aeromobile per scattare delle foto e confermare l’identità dell’aviatore: interesse che non venne accolto di buon grado dal giovane tenente, il quale fece esplodere in aria alcuni colpi con la pistola d’ordinanza mentre chiedeva, a più riprese, di parlare con un rappresentante del governo degli Stati Uniti d’America. L’intera faccenda si sarebbe chiarita nei giorni seguenti grazie all’intervento dell’ambasciatore americano a Tokyo che, preso atto della volontà del transfuga di condividere le proprie informazioni, ne ottenne il rilascio immediato e il trasferimento negli USA[5]. Tre giorni dopo, il Ministero della Giustizia giapponese accordò a Washington il permesso di smontare il jet pezzo per pezzo, al fine di carpirne ogni più piccolo segreto. Quello che venne alla luce lasciò gli esperti senza parole.

IL CREPUSCOLO DEGLI DEI

Tanto per cominciare, il MIG-25 non era quel formidabile caccia da superiorità aerea che si era a lungo creduto, ma un intercettore nato dall’esigenza di contrastare la minaccia dei bombardieri strategici (primo fra tutti il trisonico XB-70 Valkyrie, mai entrato in servizio) e dei ricognitori statunitensi che violavano lo spazio aereo sovietico. Le ragioni che avevano spinto i progettisti ad optare per una pianta alare così ampia erano quindi dettate dalla necessità di sostenere la mole immensa del velivolo, pesante oltre 36 tonnellate a pieno carico per via della costruzione in lega nichel-acciaio, con percentuali minime di titanio (8%). In secondo luogo, la massima velocità raggiungibile in assetto da combattimento (4 missili a lungo raggio e serbatoi colmi di carburante) si attestava intorno ai 2.655 chilometri orari (Mach 2,5). In configurazione “pulita”, ossia senza carichi esterni, si poteva invece “tirare” fino a 3.000 chilometri orari (Mach 2,83), soglia oltre la quale i turbojet tendevano a disintegrarsi per la pressione esercitata dall’aria in ingresso dalle prese laterali. Il MIG scampato all’intercettazione israeliana era infatti atterrato coi motori talmente danneggiati da dover essere ritirato dal servizio. Infine il potentissimo radar Smerč-A (nome in codice NATO “FoxFire”), benché immune alle contromisure elettroniche e capace di rilevare grossi bersagli oltre i 100 chilometri, si basava su tecnologie antidiluviane come quella delle valvole termoioniche, utilizzate sui televisori in bianco e nero sin dagli anni ’50. Dopo 67 giorni di studio meticoloso, i resti dell’aeroplano sarebbero stati riposti in quaranta casse e spediti via mare in Unione Sovietica che, ad ogni modo, accusò la sparizione di almeno venti componenti.

Questo avvenimento non pose soltanto la parola fine a un’avventura dai contorni squisitamente hollywoodiani, degna conclusione di una storia le cui tinte sembravano il frutto dalla penna dei migliori Ian Fleming e Tom Clancy, ma al mito del “Foxbat” stesso, che dopo quasi un decennio cessava di essere quell’aereo imbattibile paventato dal Pentagono. Una volta emerse tutte le deficienze di un progetto forse troppo ambizioso per i tempi e il contesto nei quali era nato, il MIG-25 venne additato come un prodotto così mediocre da non dover essere nemmeno confrontato con quanto di meglio l’Occidente potesse schierare: in effetti decine di questi apparecchi sarebbero caduti vittime della caccia avversaria durante i conflitti che insanguinarono il Medio Oriente tra l’81 e il ’91, anche se è bene sottolineare che le ragioni dietro a un simile massacro siano in parte riconducibili allo scarso addestramento dei piloti, nonché alla presenza di velivoli ben più sofisticati come il summenzionato F-15 “Eagle”.

Indipendentemente dal valore effettivo provato sul campo di battaglia, il MIG-25 ha il merito di aver mostrato la direzione verso cui si sarebbe dovuta evolvere la tecnica aeronautica per permettere la realizzazione di aeromobili sempre più prestazionali; e che a prescindere dalla fama di invincibilità nella quale siamo soliti avvolgerle, le tigri di carta fanno paura solo finché non ci si convince che siano tali.

Video tratto dal canale YouTube odzadze123, prodotto da Wings of Russia studio nel 2012. Direttore: Andrew Kulyasov.


Niccolò Meta

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] All’evento erano presenti anche rappresentanti delle delegazioni straniere.

[2] Il termine Foxbat indica la volpe volante, una particolare specie di pipistrello asiatico.

[3] La conversione in chilometri orari muta in base alle variabili prese in considerazione: a 20° C e a 1 atmosfera, Mach 3,2 corrispondono infatti a 3.920 km/h, mentre secondo il Sistema Internazionale (SI) equivalgono a 3.400 km/h.

[4] Si sta parlando del 63° Distaccamento Aereo Indipendente.

[5] Tali scelte destarono l’immediata reazione di Mosca che, in un gesto di rappresaglia, trattenne gli equipaggi di alcuni pescherecci nipponici operanti nei pressi delle acque territoriali sovietiche.

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