Come già accennato nei passaggi conclusivi dell’articolo sull’operazione Štorm 333, l’intervento militare russo ha costituito un autentico punto di svolta nella cornice della “Seconda guerra fredda”: l’inaspettata reazione del Cremlino volta a prevenire il collasso del regime del PDPA[1], salito al potere nell’aprile del ‘78 al termine della sanguinosa rivoluzione di Saur, aveva infatti contribuito ad alimentare le ipotesi più disparate circa una sua incontenibile espansione in Eurasia, a cominciare da un Medio Oriente attraversato da pericolose tensioni geopolitiche. Piuttosto eloquente è la testimonianza offerta dal diplomatico Leon B. Poullada (1913-1987) che, nelle pagine dell’opera “The Failure of American Diplomacy in Afghanistan”, si era proposto di analizzare le implicazioni derivanti dalla condotta perseguita da Mosca:
La conquista dell’Afghanistan rappresenta, in un audace ma attentamente pianificato atto di rapina, un’avanzata del suo potere strategico entro 500 miglia dal Golfo Persico e dallo Stretto di Hormuz. Se i sovietici riuscissero nella pacificazione del Paese trasformandolo in un avamposto, potrebbero intimidire l’intera regione, soffocando le linee di rifornimento petrolifero tra l’Europa e il Giappone. L’alleanza occidentale non sopravvivrebbe a un avversario che controlla le sue vitali riserve di idrocarburi.
Poullada. L.B., The Failure of American Diplomacy in Afghanistan, «World Affairs», Vol. 145, No. 3, Afghanistan (Winter 1982/83), Sage Publications Inc, p. 230.
È in quest’ottica che occorre dunque interpretare gli sforzi profusi da Washington, Islamabad e dagli altri key players nel supportare i mujāhidīn con ogni mezzo viabile, arrivando addirittura a fornir loro l’addestramento necessario perché infliggessero perdite sempre maggiori. In tal modo, l’Unione Sovietica sarebbe stata costretta a incrementare la propria presenza nello scacchiere, trasformando quella che avrebbe dovuto essere un’azione rapida e perentoria in un’estenuante guerra di logoramento.
Malgrado il fitto alone di segretezza che avvolgeva l’intera iniziativa, la conferma dei contatti intessuti con gli insorti sarebbe arrivata già nel corso del 1981, quando il leader egiziano Anwar al Sadat (1918-1981) rivelò di aver trasferito oltreoceano armi di fabbricazione russa affinché venissero distribuite tra i “freedom fighters”. Come il lettore potrà facilmente intuire, una simile esternazione non mancò di riflettersi sul piano internazionale, obbligando il sottosegretario per gli affari politici Lawrence Eagleburger (1930-2011) a prendere le distanze dall’episodio poc’anzi descritto.
UN INSOLITO ALLEATO: PECHINO E L’OPERAZIONE CYCLONE
Più oscuro risulta essere invece il ruolo svolto dalla Repubblica Popolare Cinese nel contrastare le manovre ordite dallo scomodo vicino[2], finalità che l’avrebbe spinta a collaborare in misura attiva con gli Stati Uniti d’America. Fondamentale per il raggiungimento dell’intesa si dimostrò l’opera di mediazione esercitata da Joe Di Trani, responsabile di sede per la CIA e profondo conoscitore del mandarino in virtù del matrimonio contratto con una donna del luogo. I due aspetti summenzionati, uniti al carisma travolgente e a un’indubbia attitudine all’improvvisazione, gli sarebbero infatti valsi la fiducia del governo di Pechino, deciso a monopolizzare il mercato clandestino con enormi quantitativi di armamenti: il Type 56, copia su licenza del leggendario fucile d’assalto AK-47 “Kalashnikov”; le mitragliatrici pesanti DShK “Dashaka”, anch’esse di concezione sovietica; i lanciarazzi controcarro Type 69, variante alleggerita del micidiale RPG-7.
Sebbene tali equipaggiamenti rappresentassero un indubbio salto di qualità rispetto alle dotazioni standard dei ribelli[3], è imperativo non lasciarsi andare a giudizi affrettati circa un eventuale riequilibrio dei rapporti di forza: in caso di confronto non asimmetrico, la padronanza dei cieli e la netta superiorità tecnologica avrebbero garantito all’Armata Rossa il pieno controllo del campo di battaglia, annichilendo le truppe avversarie prima ancora che riuscissero a guadagnare la sicurezza delle montagne. Altrettanto problematica rimaneva l’identificazione del corridoio attraverso cui far affluire gli aiuti, aggirando nel processo gli oltre quaranta checkpoint sparsi lungo il percorso tra Kabul, capitale della repubblica democratica, e la città di Torkham.
IL RUOLO DEL PAKISTAN TRA LUCI E OMBRE
Perché l’equazione potesse funzionare bisognò coinvolgere il Pakistan del presidente Muhammad Zia-ul-Haq (1924-1988), allarmato dall’aggressività sovietica che minacciava non solo di rimettere in discussione gli equilibri nell’area, ma di fomentare derive separatiste nelle province del Belucistan e della Frontiera del Nord-Ovest. È bene comunque sottolineare quanto, all’origine di questa partnership ristretta agli ambiti spionistico e militare, figurassero valutazioni di natura meramente opportunistica: sin dai primi anni ‘70, i rapporti con Islamabad erano infatti entrati in una spirale discendente, conseguenza di un insieme di fattori quali l’opposizione al progetto 706 [4] e il mancato appoggio in occasione della guerra con Nuova Delhi (dicembre 1971). Commentava in proposito Charles Cogan (1928-2017), ex funzionario della CIA e professore emerito presso l’Università di Harvard:
Le caratteristiche generali del cosiddetto “programma segreto afghano” sono, nel complesso, abbastanza conosciute […] gli Stati Uniti misero a disposizione fondi, equipaggiamenti e una supervisione generale. L’Arabia Saudita contribuì in misura eguale sotto il profilo economico, mentre i cinesi vendettero e donarono armamenti. Ma la parte del leone a livello operativo, in prossimità della linea del fronte, sarebbe spettata all’ISI[5] pakistano, dal momento che aveva insistito per averne il controllo.
Cogan. C., Partners in time: the CIA and Afghanistan since 1979, «World Policy Journal», Vol. 10, No. 2 (Summer, 1993), Duke University Press, p. 76
In merito al criterio seguito nella distribuzione delle forniture, occorre menzionare la grave disparità di trattamento riservata alle unità sciite [6], nonché le notevoli limitazioni poste all’ingresso dei rifornimenti oltre il Khyber. Piuttosto illuminante è lo scenario tratteggiato in tal senso dal politologo Olivier Roy, protagonista di sei viaggi condotti in Afghanistan per documentare l’andamento delle ostilità:
L’appoggio dall’esterno era assai cauto e veniva fornito per mezzo di un intermediario rappresentato dal governo pakistano, il quale si guardava bene dal riversare troppo materiale […] in principio, il Pakistan poneva poca enfasi rispetto all’Occidente sul problema dell’apporto bellico e dell’unione politica [la coalizione eptapartitica citata nell’articolo precedente, n.d.a.].
Il Pakistan, il cui nuovo governo militare non era ancora saldamente in controllo, non poteva permettersi di apparire come un semplice palcoscenico […] benché consentissero il transito delle armi attraverso il loro Paese, i pakistani avevano stabilito dei limiti qualitativi e quantitativi. Non dovevano superare un certo calibro […] ed era stato imposto un tetto sul livello massimo di sofisticazione tecnologica, escludendo missili e altri dispositivi all’avanguardia.
A livello politico, invece, erano ossessionati dal timore che la Resistenza potesse svilupparsi allo stesso modo dei gruppi palestinesi, magari godendo della complicità di milioni di profughi […] ritenevano quindi che l’unica assicurazione contro un simile rischio fosse una Resistenza divisa.
Roy.O., Islam and Resistance in Afghanistan. Second Edition, Cambridge University Press, 1990, p 122.
È in questa torbida cornice che emerge la figura di Osāma bin Lāden (1957-2011), personaggio chiave nel supportare le attività del movimento guerrigliero afghano sin dai primi mesi del conflitto. Rampollo di una famiglia facoltosa che vantava legami diretti con la dinastia saudita, il giovane miliardario avrebbe infatti messo a disposizione macchinari e capitali provenienti dall’impresa edile del padre, la Saudi Binladin Group, per assicurare la continuazione del jihad contro i kāfir[7] comunisti. Esistono inoltre diverse indiscrezioni secondo cui, già in tempi non sospetti, il futuro “Sceicco del terrore” avrebbe intessuto una complessa trama di relazioni con la CIA, benché non vi sia alcuna prova inconfutabile a sostegno della tesi.
LA GUERRA SEGRETA DI CHARLIE WILSON E L'”EFFETTO STINGER”
Con l’approdo del repubblicano Ronald Reagan (1911-2004) alla Casa Bianca, il programma di aiuti previsto dall’operazione Cyclone avrebbe ricevuto una maggior allocazione finanziaria, merito anche degli sforzi profusi dal texano Charles Wilson (1933-2010). Ex ufficiale di Marina e membro della House Appropriations Subcommitee on Defense, la sottocommissione parlamentare incaricata di redigere il bilancio dei servizi d’intelligence, Wilson ottenne il via libera per un finanziamento di 40 milioni di dollari riservato agli insorti, 17 dei quali destinati all’acquisto esclusivo di artiglieria contraerea.
Un simile episodio si sarebbe rivelato cruciale nel convincere Gust Avrakotos (1938-2005), capo dell’Afghan Task Force e personaggio chiave per la riuscita dell’intero progetto, a esercitare pressioni crescenti sul deputato affinché chiedesse un nuovo stanziamento pari a 50 milioni di dollari. Nonostante i dubbi legittimi sull’accoglimento di una manovra i cui oneri sarebbero ricaduti sui contribuenti, la CIA ricevette per la fine dell’84 una somma equivalente a 300 milioni di dollari, assicurando in tal modo un drastico aumento qualitativo del materiale indirizzato ai combattenti.
Particolare attenzione merita il temibilissimo FIM-92 “Stinger”, missile terra-aria spalleggiabile (MANPAD) la cui efficacia operativa lo avrebbe reso una delle icone imperiture del conflitto. I primi dibattiti relativi all’esportazione di un sistema d’arma così all’avanguardia risalivano al 1983, quando l’ambasciatore per il Pakistan Ronald Spiers (1925-vivente) inviò a Eagleburger un cablogramma segreto invitandolo, non appena la produzione avesse raggiunto ritmi significativi, a valutare l’ipotesi di fornirlo ai mujāhidīn. Il quesito sarebbe stato riproposto durante un colloquio tenutosi nel novembre successivo a Washington, ma anche in questa circostanza si preferì rimandare la decisione a data da destinarsi.
Un potente impulso perché la vicenda catturasse l’attenzione del Congresso sarebbe invece giunto da Charlie Wilson e dall’onorevole Clarence Long (1908-1994) che, al termine di un incontro avvenuto nel mese di agosto con una delegazione dei ribelli, approcciarono il presidente Zia chiedendogli di abrogare parte delle restrizioni sul transito degli armamenti missilistici. Riferisce in proposito Alan Kuperman, professore per gli affari pubblici nell’Università di Austin, Texas:
Al contrario, egli suggerì l’alternativa di un cannone anti-aereo come lo svizzero Oerlikon, escludendo qualsiasi hardware realizzato negli Stati Uniti […] “Se fosse stato prodotto in America, i sovietici lo avrebbero ricondotto al Pakistan e lui [Zia] non lo voleva”, ricordava Long. Come si scoprì in seguito, nemmeno l’amministrazione Reagan era all’epoca favorevole ad esportare armi altamente tecnologiche, come ad esempio gli Stinger, fuori dagli USA.
Kuperman. A. J., The Stinger missile and U.S. intervention in Afghanistan, «Political Science Quarterly», Vol. 114, No. 2 (Summer, 1999), The Academy of Political Science, p.222.
Il punto di svolta per il superamento di uno stallo così duraturo avvenne nel settembre del 1984, quando il repubblicano Michael Pillsbury (1945-vivente) avviò un fruttuoso sodalizio col Pentagono coordinando le operazioni segrete in Afghanistan, Angola, Cambogia e Nicaragua. Pur avendo condiviso le riserve dell’ISI in merito a una possibile reazione dell’URSS, l’Assistente Sottosegretario alla Difesa per la Pianificazione Militare si era infatti convinto della necessità di rendere disponibili i lanciatori, espediente propedeutico a intaccare quella supremazia aerea di cui i sovietici avevano goduto sin dal dicembre del ‘79.
Non bisogna inoltre sottovalutare quanto, alla base di questa scelta gravida di conseguenze, avessero inciso valutazioni di ordine tecnico: ad esempio il SA-7 “Grail”, prodotto in Russia fin dal 1968 e facilmente reperibile grazie all’ampia disponibilità presso gli arsenali egiziani, era un MANPAD troppo carente per poter ingaggiare con successo i velivoli nemici, peraltro forniti di contromisure idonee a “ingannare” il suo sistema a guida infrarossa; il britannico Blowpipe, di concezione più moderna e già sperimentato nel corso della guerra delle Falkland (1982), mancava invece di un dispositivo “spara e dimentica”[8], obbligando l’operatore a esporsi finché il razzo non avesse colpito il bersaglio; il cannone Oerlikon da 20mm, affidabile e dotato di un impressionante volume di fuoco, necessitava di una ventina di muli per poter essere trasportato da una parte all’altra del fronte; infine il FIM-43 “Redeye”, entrato in servizio con l’esercito statunitense nel 1967, condivideva le stesse identiche limitazioni dell’omologo sovietico. Ci svela Kuperman, tra le righe del saggio “The Stinger missile and U.S. intervention in Afghanistan“:
La svolta politica formale si consumò nel marzo del 1985, quando Ronald Reagan firmò la National Security Decision Directive (NSDD) 166, ancora classificata come segreta, autorizzando l’assistenza ai ribelli “con ogni mezzo disponibile” […] l’appoggio americano non si sarebbe più limitato a mettere i “freedom fighters” nelle condizioni di poter infastidire i sovietici, ma li avrebbe costretti al ritiro. I mujāhidīn avrebbero avuto accesso a immagini satellitari e ad altre informazioni per colpire le installazioni afghane e dell’Armata Rossa, così come all’expertise nella demolizione e alle tecnologie per la comunicazione in sicurezza.
Kuperman. A. J., The Stinger missile and U.S. intervention in Afghanistan, Political Science Quarterly, Vol. 114, No. 2 (Summer, 1999), The Academy of Political Science, p.227.
Da quando fece il suo debutto operativo nel teatro bellico afghano, lo Stinger si rese protagonista dell’abbattimento di decine di apparecchi il cui computo rimane, ancora oggi, argomento di speculazione. Secondo gli analisti del Cremlino, le perdite complessive sofferte nei tre anni precedenti al ritiro si aggirerebbero fra i 30 e i 40 velivoli, mentre stando ad altre fonti questa cifra andrebbe portata a 269 unità. Al di là del mero aspetto statistico, è lecito affermare come l’apparizione di questo missile abbia rappresentato un vero e proprio game changer, obbligando gli equipaggi russi a ideare contromisure sempre meno improvvisate come bengala luminosi e deflettori nell’area degli ugelli di scarico, nonché ad attribuire una maggior enfasi alle missioni notturne impiegando un profilo di attacco ad alta quota. Espedienti che, alla prova dei fatti, non avrebbero tardato a riflettersi sulla qualità della copertura aerea.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Partito Democratico Popolare Afghano.
[2] Sebbene Pechino e Washington si fossero già rese protagoniste, a partire dalla prima metà degli anni Settanta, di un timido riavvicinamento diplomatico, le insuperabili divergenze ideologiche e il timore di possibili rappresaglie avevano suggerito l’adozione di un approccio molto cauto.
[3] Allo scoppio delle ostilità, i ribelli potevano contare sui vetusti fucili ad avancarica Martini-Henry e sui più moderni Lee Enfield, sui Mosin-Nagant di epoca zarista e su qualche esemplare di Lebel 1886.
[4] Il Progetto 706, talvolta conosciuto con il nome in codice “Kahuta”, mirava alla realizzazione di un ordigno atomico alimentato dall’uranio arricchito. L’obiettivo ultimo era quello di ristabilire la parità militare e tecnologica con l’India.
[5] L’Inter- Services Intelligence è il servizio d’informazione e spionaggio del Pakistan.
[6] Le più colpite furono le formazioni sciite in quanto sospettate di intrattenere legami diretti con l’Iran khomeinista.
[7] Infedeli
[8] L’espressione “spara e dimentica”, in inglese “fire and forget”, indica un sistema a guida inerziale che consente al missile di tracciare il bersaglio senza bisogno di un’”illuminazione” continua da parte del vettore.