Se la decisione di intervenire a supporto di Kabul aveva destato non poche perplessità in seno al Comitato Centrale e al Politbjuro, complici di una scelta miope le cui conseguenze avrebbero inciso negativamente sui destini dell’URSS, l’impasse strategica e l’impopolarità di Babrak Karmal finirono col palesare le gravi carenze alla base della dottrina Brežnev. Quasi nessuno sembrò aver intuito, all’interno dei circoli politici e militari russi, che l’arrivo di un esercito straniero potesse divenire un formidabile catalizzatore per l’allargamento della rivolta, né tantomeno che le relazioni con l’Occidente capitalistico ne risentissero in modo così disastroso. A differenza di quanto accaduto in occasione della Primavera di Praga, episodio che suscitò un profondo sdegno senza però compromettere l’evoluzione del processo distensivo, il conflitto in Afghanistan avrebbe infatti incrinato la partnership commerciale avviata dai due blocchi nella seconda metà degli anni ‘60, riflettendosi sullo stato di salute di quelle economie socialiste oberate dal peso del debito pubblico[1].
L’EVOLUZIONE DELLA POLITICA ESTERA SOVIETICA, DA BREŽNEV A GORBAČËV (1980-1985)
L’insieme di tali fattori ebbe dunque un ruolo decisivo nel spingere il Cremlino, ancora egemonizzato dal partito della guerra ma consapevole dei rischi derivanti da un eccessivo isolamento sul piano internazionale, ad aprirsi al dialogo con l’ONU ricercando una soluzione diplomatica. Riporta in proposito l’accademico Fred Halliday, nel pamphlet intitolato Soviet Foreign Policymaking and the Afghanistan War: From ‘Second Mongolia’ to ‘Bleeding Wound:
Stando a Safronchuck [ambasciatore al servizio dell’Unione Sovietica, n.d.a], Gromyko aveva compreso la necessità di mediare con le Nazioni Unite, nel giugno del 1980. Ciò non significava, di per sé, che Mosca fosse pronta a scendere a compromessi, ma costituiva l’ammissione per cui la sola forza non bastasse a risolvere il problema […] Vi era inoltre un terzo aspetto relativo a tale dubbio, legato alla situazione politica imperante in Afghanistan: tralasciando le difficoltà belliche, Karmal non era stato in grado di ampliare le basi del proprio consenso; il “nuovo corso” non stava funzionando.
Egli non era Kadar [Segretario Generale del Partito Socialista Operaio dell’Ungheria, succeduto a Imre Nagy in qualità di Primo Ministro dopo gli eventi dell’ottobre del ’56, n.d.a]. In pratica si era venuto a creare un circolo vizioso: l’assistenza sovietica stava alienando l’appoggio della popolazione da un governo fin troppo debole per sorreggersi in autonomia. Questo era esattamente quanto Aleksej Kosygin aveva temuto potesse accadere, nel marzo del 1979, durante le discussioni con Nur Mohammad Taraki.
Halliday. F., Soviet Foreign Policymaking and the Afghanistan War: From ‘Second Mongolia’ to ‘Bleeding Wound’, «Review of International Studies», Vol. 25, No. 4., Oct., 1999, Cambridge University Press, p. 681. Traduzione a cura dell’autore.
Nonostante i continui rinvii causati dalla reticenza di Muhammad Zia-ul-Haq all’ipotesi di una negoziazione diretta con la RDA[2], il primo round per le trattative multilaterali si aprì a Ginevra nell’aprile del 1982. In tale occasione il sottosegretario generale per gli affari politici speciali Diego Cordovez (1935-2014), costretto suo malgrado a incontrare separatamente i ministri plenipotenziari dei due Paesi asiatici, ottenne come unica concessione l’impegno nel lasciare l’Iran e il Pakistan liberi di riconoscere il regime di Kabul. Perché la nomenklatura adottasse un approccio meno rigido bisognò attendere il 10 novembre successivo, quando la storica guida del PCUS e campione della linea interventista Leonid Brežnev, già da tempo vittima di gravi problemi salutari, si spense all’età di 75 anni.
A succedergli fu l’ex capo del KGB Jurij Andropov, uomo di polso la cui fama di instancabile persecutore dei dissidenti politici era seconda al solo pragmatismo mostrato nella gestione dei focolai di crisi. Benché rientrasse fra coloro che si erano espressi in favore di un coinvolgimento diretto al fianco del PDPA, impegnato da ormai quattro anni in una lotta senza quartiere contro coloro che avevano aderito all’appello per il jihad, il nuovo leader sovietico non ignorava le lezioni apprese sulla natura del conflitto: dal suo punto di vista, la neutralizzazione di un nemico temibile che traeva il proprio slancio dall’appoggio popolare, dal fervore religioso e dagli aiuti internazionali avrebbe richiesto l’adozione di una strategia basata sulla de-escalation. Nondimeno, il raggiungimento di un qualunque accordo rimase una chimera di fronte alla volontà di non pronunciarsi sulle tematiche più spinose, nello specifico la definizione di una scadenza per il ritiro dei contingenti militari e, soprattutto, la composizione di quel governo chiamato a traghettare l’Afghanistan fuori dal caos della guerra civile.
Le radici di quest’ambiguità all’apparenza inspiegabile perché contraria ai medesimi obiettivi perseguiti dal Cremlino vanno ricercate, sotto certi aspetti, in una moltitudine di concause destinate a riemergere anche dopo l’ascesa di Michail Gorbačëv (1931-2022): l’illusione che il Partito Democratico potesse elevarsi a portavoce di un disegno capace di riscuotere le simpatie degli autoctoni; l’irriducibilità palesata dallo schieramento anti-governativo, riorganizzatosi tramite il prezioso appoggio della CIA e dell’ISI; la credenza secondo la quale gli attori implicati nell’operazione Cyclone, una volta appurata la volontà dell’URSS nell’evacuare i reparti ancora presenti nello scacchiere, avrebbero sospeso il programma di aiuti indirizzato ai mujāhidīn.
Alla luce di quanto appena descritto si può quindi affermare come, nonostante il cambio di dirigenza che aveva interessato i vertici dello Stato, gli sforzi profusi da Andropov e dal successore Konstantin Černenko (1911-1985) non furono sufficienti a liberare l’URSS dalle sabbie mobili dell’Afghanistan. Commentava a riguardo Halliday:
Gli ultimi mesi di Andropov e quelli della dirigenza Černenko (febbraio 1984-marzo 1985) non videro alcun movimento politico o diplomatico in Afghanistan, quanto piuttosto un’intensificazione delle attività militari. La linea rimase quella di ricercare una “vittoria” sul campo. Ciò può essere spiegato tenendo conto del fattore decisivo nella realizzazione delle policies russe nell’area, vale a dire l’equilibrio fra gli attori legati alla leadership stessa.
Halliday. F., Soviet Foreign Policymaking and the Afghanistan War: From ‘Second Mongolia’ to ‘Bleeding Wound’, «Review of International Studies», Vol. 25, No. 4., Oct., 1999, Cambridge University Press, p. 682. Traduzione a cura dell’autore.
E ancora, stavolta ripercorrendo l’analisi stilata da Richard Hermann nel saggio Soviet behavior in regional conflicts. Old questions, new strategies, and important lessons:
La mediazione internazionale venne ostacolata dal rifiuto di Mosca nell’accettare qualsiasi approccio che potesse condurre a dei cambiamenti significativi nel regime afghano. Tutto questo cominciò a cambiare nel 1985 e, a partire dalla primavera dell’86, apparve chiaro come Gorbačëv fosse più serio in merito a una riconciliazione nazionale. Il concetto aveva sempre fatto parte della campagna afghano-sovietica, ma adesso mirava al sostegno di una coalizione governativa e all’inclusione di gruppi che, in precedenza, erano stati considerati nient’altro che agenti al servizio della CIA.
Herrmann. R.K., Soviet behavior in regional conflicts. Old questions, new strategies, and important lessons, «World Politics», Vol. 44, No. 3 (Apr., 1992), Cambridge University Press, pp. 453. Traduzione a cura dell’autore.
LA SFIDA DI GORBAČËV TRA DUBBI, RESISTENZE E NECESSITÀ DI CAMBIAMENTO (1985-1987)
Per comprendere i motivi dietro a un’inversione di rotta così repentina è necessario fornire, nello spazio di poche righe, un breve resoconto del clima che si era venuto a instaurare nella Russia post-brežneviana. Delfino di Suslov e protagonista di un invidiabile cursus honorum che lo aveva portato a scalare le gerarchie del Partito, Gorbačëv ricevette in eredità un Paese fortemente provato della stagnazione dell’economia e dal prepotente risveglio delle velleità secessionistiche, problemi esacerbati dalle spese proibitive per il mantenimento del complesso militare-industriale. La sua attività riformatrice si sarebbe dunque inserita, almeno in un primo periodo, nel solco moralizzatore tracciato da Andropov, promuovendo un insieme di misure quali il ricambio del personale politico sulla base del servizio reso nelle periferie, la lotta all’alcolismo [3] e l’istituzione di un nuovo organo centrale per il settore agricolo (Gosagroprom).
Ben più importanti furono però le linee guida tracciate nel corso del XXVII Congresso del PCUS (febbraio-marzo 1986), riassumibili nelle tre celebri formule di perestroika, uskoreniye e glasnost. La prima stava a indicare un programma di ristrutturazione ideato in seguito all’allarmante rapporto siberiano del 1983[4], necessario al rilancio di un modello economico misto ispirato alla NEP leniniana e al socialismo di mercato cecoslovacco. Ad essa complementare risultava essere l’accelerazione del progresso tecnico e scientifico mediante cui sostenere, in ottemperanza ai postulati teorici del marxismo, il rinnovamento dell’industria pesante, mentre a partire da quello stesso giugno si incoraggiò l’attenuazione della censura e l’inedita prassi dei dibattiti pubblici.
Nei mesi successivi al conferimento del mandato segretariale, il dirigente sovietico avrebbe inoltre sciolto le proprie riserve sul nodo afghano dichiarando, con sommo disappunto dei falchi ancora presenti tra le fila della nomenklatura, di voler procedere con il ritiro tempestivo delle truppe ivi dislocate. All’origine di una scelta così drastica non figurava il solo desiderio di accelerare la normalizzazione dei rapporti con gli USA, ma anche la necessità di sbloccare quelle risorse utili ad alleviare lo stato di sofferenza in cui versava l’economia nazionale. Un simile impegno sarebbe stato ribadito durante la seduta indetta dal Politbjuro il 17 novembre 1985, polarizzata dai dibattiti relativi alla decisione di abbandonare il Paese entro l’estate dell’86, nonché nel corso del summenzionato XXVII Congresso, quando lo stesso Gorbačëv si riferì all’avventura bellica utilizzando la metafora evocativa della “ferita sanguinante”.
I LIMITI DELLA RICONCILIAZIONE NAZIONALE
A dispetto dei proclami che avevano accompagnato l’intera vicenda, l’evacuazione della 40ª Armata si rivelò un processo troppo difficoltoso per concludersi nelle tempistiche indicate dal Segretario Generale, a sua volta interprete di una condotta arbitraria e non sempre coerente con il proprio manifesto politico. Piuttosto emblematica fu l’escalation registratasi in diverse aree del fronte nel biennio 1985-86, solo in parte conseguenza delle scelte ereditate dalle previe amministrazioni. Nondimeno, un chiaro segnale di controtendenza sarebbe arrivato con l’esautorazione di Babrak Karmal dalla guida del PDPA (4 maggio 1986), decisione maturata alla luce dei magri risultati che costui aveva raccolto nei sei anni in cui era rimasto al potere. Al suo posto fu scelto Mohammad Najibullah (1947-1996), ex Direttore del KHAD e personaggio molto gradito al Cremlino per l’efficienza mostrata nell’esercizio delle mansioni assegnategli.
Per sfortuna dei sovietici e di chiunque avesse auspicato il rilancio della linea della riconciliazione, il nuovo leader non tardò a palesare una certa insofferenza nei confronti delle pressioni esercitate dal potente alleato, opponendosi al progetto di cooptazione delle altre forze partitiche nell’area di governo. Ciò risultò evidente nella giornata del 30 settembre 1987 quando, contravvenendo ai desiderata di Mosca per una lottizzazione delle cariche istituzionali, l’ex capo dei servizi segreti assunse il titolo di Presidente delle Repubblica tramite il solo appoggio del Partito Democratico Popolare. Ci spiega Fred Halliday, con il suo stile asciutto e conciso:
Benché fosse stata ufficializzata questa “riconciliazione nazionale”, si cominciò ben presto a nutrire dei dubbi su quanto energicamente Najibullah la stesse perseguendo. La principale novità che egli istituì fu, a partire dal 1986, una politica di tregue locali coi capi guerriglieri e tribali; espediente che, in una certa misura, gli aveva consentito di rafforzare il proprio potere, conducendo a una proliferazione di milizie e di organizzazioni per la sicurezza sotto il suo controllo personale. Najibullah utilizzava l’aiuto dei russi per consolidare la propria posizione e guadagnare tempo, continuando però a muoversi nell’ombra alla stregua dei vari Taraki, Amin e Karmal.
Halliday. F., Soviet Foreign Policymaking and the Afghanistan War: From ‘Second Mongolia’ to ‘Bleeding Wound’, «Review of International Studies», Vol. 25, No. 4., Oct., 1999, Cambridge University Press, p. 684. Traduzione a cura dell’autore.
Pur indisponendo un establishment alle prese con dei cambiamenti epocali dopo decenni di cronico immobilismo, la scarsa gestibilità del segretario afghano sarebbe rimasto un problema di secondaria importanza nell’agenda di Gorbačëv. Non bisogna infatti dimenticare come, anche all’interno di una nomenklatura coesa nel giudicare il conflitto alla stregua di un atto irriflessivo e precipitoso, esistessero alcune frange contrarie alla proposta di un ritiro unilaterale che avrebbe avuto gravi ripercussioni sull’immagine dell’URSS. Tra i fautori di un approccio mediano che tenesse conto della precarietà in cui versava il governo di Kabul, trincerato dietro a posizioni talmente monolitiche da impedire il raggiungimento di un qualsiasi accordo, figurava il nuovo ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze (1928-2014): a suo giudizio, la normalizzazione dei rapporti col blocco occidentale non avrebbe dovuto danneggiare gli interessi geopolitici del Cremlino, né tantomeno esigere il sacrificio di una RDA ora più che mai bisognosa di un supporto economico, logistico e militare.
L’indirizzo maggioritario fra i membri del Politbjuro restava, nondimeno, quello costruito su un disimpegno progressivo e immune ai diktat imposti dalla comunità internazionale, destinato a concludersi solamente quando il regime di Najibullah avesse dato prova di sostenersi in completa autonomia. A ciò bisognava infine aggiungere l’intransigenza che Islamabad e Washington avevano mostrato nel corso delle trattative, frutto di una strategia a lungo termine mirata a trasformare la contesa in ciò che il Vietnam aveva rappresentato per la Casa Bianca: un enorme crogiolo dove scaraventare centinaia di vite umane e miliardi di investimenti.
IL SUPERAMENTO DELLO STALLO E IL RITIRO (1988-1989)
Perché questi ostacoli venissero superati bisognò attendere l’epilogo dell’87 quando Shevardnadze, al termine di un colloquio fissato col segretario di Stato George Shultz (1920-2021), rese nota l’intenzione del proprio governo di abbandonare l’Afghanistan entro la fine dell’anno seguente. Cruciale nel favorire un simile sviluppo era stata la firma del Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (8 dicembre 1987), episodio di fondamentale importanza in quanto indicatore del rapido esaurimento della competizione bipolare.
Pochi mesi dopo (8 febbraio), Gorbačëv avrebbe comunicato alla Nazione e al mondo intero che il ritiro dell’Armata Rossa, incapace di prevalere su un nemico insidioso malgrado l’indiscutibile superiorità tecnologica, si sarebbe consumato nel periodo compreso tra il 15 maggio 1988 e il 15 febbraio 1989. La conclusione ufficiosa delle ostilità arrivò invece il 14 aprile 1988, quando i ministri plenipotenziari del Pakistan e della Repubblica Democratica Afghana, assieme a quelli degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica nel ruolo di garanti, si riunirono a Ginevra per ratificare i quattro accordi che componevano il documento.
La scelta di non estendere i colloqui ai rappresentanti dei maggiori partiti anti-comunisti come l’Unità Islamica dei Mujāhidīn d’Afghanistan, coalizione composta dai movimenti sunniti di etnia Pashtun che avevano offerto il loro contributo nella lotta ai kafir, non mancò tuttavia di alimentare il risentimento dei leader che avevano sperato di far sentire la propria voce in sede di negoziazione. È sotto questa luce che bisogna interpretare le continue violazioni del cessate il fuoco entrato in vigore all’indomani della firma dell’intesa, nonché il disconoscimento della sua stessa valenza giuridica che, a distanza di qualche mese, avrebbe condotto a una ripresa della guerra civile.
Per comprendere appieno la portata delle violenze che contraddistinsero il conflitto, sottoprodotto di una stagione durata oltre quarant’anni dove due modelli fra loro inconciliabili si erano sfidati per il dominio delle relazioni internazionali, è sufficiente leggere questo piccolo passaggio a cura della professoressa Meredith Runion:
Mentre le ultime forze sovietiche lasciavano l’Afghanistan, più di 620.000 soldati avevano servito nel Paese durante un’occupazione durata nove anni. Nel corso delle ostilità, più di 469.000 combattenti erano stati feriti o si erano ammalati, mentre le autorità russe riconobbero la morte di 14.453 militi. Un numero compreso fra i 10.700 e i 11.600 restò invalido o disabile nel dopoguerra, cifre che sono di gran lunga inferiori a quelle sofferte dagli Stati Uniti nel Vietnam. Al contrario, i mujāhidīn riportarono perdite tra il milione e il milione e mezzo, nonché decine di migliaia di persone gravemente ferite o mutilate.
Runion. M.L., The history of Afghanistan, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara, 2007, p. 115. Traduzione a cura dell’autore.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Scrive Jeremi Suri:
Tra il 1964 e il 1972, il commercio sovietico con ciascuna delle maggiori economie dell’Europa occidentale crebbe più del doppio. Mosca incoraggiò anche i suoi alleati dell’Europa orientale a espandere il loro commercio con l’Occidente […] aprendo il CMEA (Consiglio di mutuo aiuto economico o COMECON n.d.a), Brežnev non solo sperava di aumentare l’accesso del Paese alla tecnologia d’avanguardia; mirava anche a ridurre il pesante fardello finanziario dell’URSS […] il debito del blocco sovietico (escludendo la Jugoslavia) aumentò da 7 miliardi di dollari statunitensi a 29 […] il socialismo sviluppato, in pratica, era un socialismo che dipendeva dal capitalismo.
Suri. J., The promise and failure of “developed socialism”: The Soviet Thaw and the Crucible of the Prague Spring, 1964-1972”, Cambridge University Press, 2006, pp.140-142.
[2] Repubblica Democratica dell’Afghanistan
[3] La campagna contro l’abuso di alcool si rivelò, col senno di poi, deleteria per l’erario statale, il quale perse in breve tempo un’importantissima fonte di entrate.
[4] Il rapporto siberiano, documento top-secret redatto da un gruppo di economisti e sociologi guidati da Tatiana Zaslavskaja, rappresentò un vero e proprio motivo di shock per l’allora Segretario Generale Jurij Andropov. Stando a quanto riportato nelle pagine del dossier, la continuazione delle politiche perseguite nell’era brežneviana avrebbe condotto l’URSS al collasso, destinato a compiersi entro la fine del millennio.
L’ha ripubblicato su La Minerva.
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