TRENT’ANNI DI GUERRA CIVILE
Nelle ultime settimane il tema dell’Afghanistan è balzato nuovamente agli onori della cronaca, complici le esternazioni del presidente Donald Trump sul rimpatrio di un numero significativo di combattenti impegnati nell’operazione Resolute Support. Ad esse occorre aggiungere le indiscrezioni riportate da alcune fonti vicine agli ambienti della Difesa circa un’analoga iniziativa da parte italiana, invero smentite dalla ministra Trenta nel corso di una puntata del programma “Otto e mezzo”; la vasta eco suscitata dall’andamento dei negoziati multilaterali tra i governi di Washington, Kabul e i rappresentanti dei Talebani (vera incognita di un processo dal quale dipenderà il futuro dei rapporti di forza nell’intera Regione); l’approssimarsi del trentesimo anniversario del disimpegno sovietico dal Paese (15 febbraio 1989). È bene infatti sottolineare come quest’episodio costituisca, nell’ambito della recente storia afghana, una sorta di “anno zero”: il vuoto di potere apertosi con il ritiro dell’Armata Rossa ha finito per porre le condizioni ideali affinché la leggendaria “Tomba degli Imperi” si trasformasse, in ultima istanza, nella base operativa di svariati gruppi terroristici, in primis la famigerata Al Qaeda e il sedicente Stato islamico.
Oltre a ripercorrere i principali avvenimenti consumatisi nello scacchiere centro-asiatico a partire dai primi anni ’90, il presente lavoro si propone di delineare i possibili sviluppi delle iniziative strategiche promosse dalla Russia, dalla Cina e dagli USA al fine di estendere la loro influenza su un’area di vitale importanza per i destini dell’Eurasia, invero poco interessata dai cambiamenti imposti dalla globalizzazione all’indomani della Guerra Fredda. Solo così sarà possibile consentire al lettore di comprendere il perché della centralità dell’Afghanistan nell’agenda politica di tali key players, protagonisti di una competizione talmente serrata da essere definita, forse con una punta di nostalgia, “Il nuovo Grande Gioco“[1].
L’OMBRA LUNGA DEL CONFLITTO DOPO IL 1989
L’entrata in vigore degli Accordi di Ginevra all’indomani del 14 aprile 1988, premessa del ritiro delle forze sovietiche al termine di un’occupazione durata quasi dieci anni, non sarebbe bastata a normalizzare un Paese ancora sconvolto dalla guerra civile in atto tra i sostenitori del Partito Democratico Popolare[2] e la Resistenza. Seppur orfano dell’appoggio formidabile dell’Armata Rossa e alle prese coi contraccolpi legati allo scarso radicamento nel tessuto sociale, il regime di Mohammad Najibullah[3] aveva disatteso qualunque previsione elaborata dagli analisti di Washington e di Islamabad: grazie al continuo afflusso di aiuti economici, logistici e militari provenienti dall’URSS, esso aveva infatti respinto le offensive sferrate dai mujāhidīn[4] sin dalla primavera dell’89, consolidando la propria presa sulle aree urbane. Piuttosto significativo risulta essere il quadro descritto da Richard K. Hermann nel pamphlet intitolato “Soviet behavior in regional conflicts. Old questions, new strategies, and important lessons“:
Malgrado il ritiro delle truppe, Mosca continuava a sostenere il regime di Najibullah incrementando il supporto militare. Le consegne di materiale sovietico per Kabul superarono di gran lunga quelle occidentali nei confronti dei mujāhidīn, e nel 1988-89 la superiorità militare di Najibullah crebbe insieme alle connessioni politiche. La creazione in Pakistan del Governo ad Interim Afghano (AIG), agli inizi del 1989, non fece altro che indebolire la coesione della Resistenza, allontanando diversi comandanti mujāhidīn convinti di come il processo fosse manipolato dal Direttorato di Sicurezza del Pakistan (ISI).
Herrmann. K R., “Soviet Behavior in Regional Conflicts: Old Questions, New Strategies, and Important Lessons”, World Politics, Vol. 44, No. 3., Apr. 1992, Cambridge University Press, pp. 453-454.
Perché il conflitto prendesse una piega favorevole agli insorti bisognò attendere i primi mesi del 1992, quando i giochi di potere in seno al Partito Democratico e l’evoluzione del contesto internazionale indebolirono le fondamenta su cui poggiava il governo filo-comunista. Tra gli avvenimenti più importanti consumatisi in questo periodo occorre ricordare la disintegrazione dell’Unione Sovietica, episodio gravido di risvolti negativi per Kabul che perse il suo maggior partner finanziario. Nel solo periodo compreso fra il 1988 e il 1990, Mosca aveva dispensato aiuti di varia natura per un valore complessivo di tre miliardi di dollari, contrariamente alla neonata Federazione Russa che scelse di interrompere sine die la fornitura di idrocarburi e di derrate alimentari. Determinante fu inoltre la defezione di Abdul Rashid Dostum tra le fila dei ribelli: comandante della 53ª Divisione di fanteria e figura di spicco all’interno dell’Esercito Nazionale Repubblicano, il militare di etnia uzbeka si sarebbe infatti reso protagonista di un clamoroso voltafaccia appoggiando, durante l’assedio della capitale, le forze di Ahmad Massoūd (1953-2001)[5] e di Sayad Jafar Naderi. A ciò bisognava infine aggiungere la terribile crisi economica che attanagliava il Paese sin dal 1989, quando l’esaurimento delle riserve di gas naturale privò la RDA[6] dell’unica ricchezza ancora a sua disposizione.
Il resto fu solo un rapido succedersi di eventi nell’attesa del tracollo finale: con l’arrivo di gennaio l’aeronautica militare, un tempo baluardo del regime in virtù dell’efficienza mostrata sul campo di battaglia, si vide costretta a cessare i voli per la scarsità del cherosene e delle parti di ricambio. L’assenza dei rifornimenti fece inoltre sì che il tasso delle diserzioni nell’esercito raggiungesse la percentuale spaventosa del 60%.
Il timore che l’avanzata dei mujāhidīn potesse degenerare nell’ennesima carneficina ai danni dei custodi del vecchio ordine, unita alle frizioni in seno al fronte anti-marxista che minacciavano di far piombare l’Afghanistan in uno stato di guerra civile permanente, spinsero il Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali (1922-2016) a tentare la carta della mediazione diplomatica proponendo, nella giornata del 10 aprile 1992, un piano relativo alla creazione di un comitato pre-transizionale composto da personalità indipendenti. Stando al rapporto presentato nel luglio del 2005 dall’organizzazione non governativa Human Rights Watch, l’obiettivo ultimo avrebbe dovuto essere:
[…] il passaggio della sovranità formale da Najibullah per poi riunire una shura (la tradizionale assemblea afghana) a Kabul e scegliere un governo ad interim. Il progetto delle Nazioni Unite consisteva nel condurre, la notte del 15 aprile, la maggioranza dei leader più anziani del consiglio e delle tribù a Kabul, per poi condurre Najibullah in esilio fuori dal Paese. Per tutta la durata delle operazioni, i mujāhidīn sarebbero rimasti al di fuori della città.
Human Right Watch, Blood-stained hands. Past atrocities in Kabul and Afghanistan’s Legacy of Impunity, July 6, 2005.
LE PRIME CREPE NEL FRONTE DELLA RESISTENZA
Sebbene tale proposta fosse stata positivamente accolta dai leader di tutte le fazioni belligeranti, la fragilità nella quale versava l’establishment filo-comunista costituì un potente incentivo perché si risolvessero a declinare un accordo che, in fin dei conti, non avrebbe sradicato la causa prima del malcontento popolare: l’esistenza di un partito teofobo supportato da una potenza straniera che, asceso al potere grazie a quindici anni di trame politiche, aveva trascinato il Paese in una spirale di violenze sino ad allora sconosciuta. Altrettanto cruciale nel favorire l’insuccesso delle trattative fu la scarsa collaborazione offerta dal Pakistan di Ghulam Ishaq Khan (1915-2006), intenzionato, nonostante il parere contrario degli altri capitribù, a supportare la candidatura di Gulbuddin Hekmatyar[7] alla Presidenza della Repubblica.
Fu in questo clima dominato dall’incertezza e dal timore di possibili colpi di coda che, alla vigilia dei colloqui preliminari fissati per il 15 aprile 1992, le forze sotto il comando di Massoūd ripresero la loro offensiva contro la provincia di Parvan, conquistando l’aeroporto di Bagram. Di fronte all’ennesimo smacco di un Najibullah ormai in balia degli eventi e abbandonato dai suoi stessi collaboratori, un manipolo di ufficiali diretto dal sottosegretario alla Difesa Mohammad Nabi Azimi prese la decisione di esautorare il Presidente in favore del leggendario “Leone del Panjshir“, scontrandosi però con l’inflessibile rifiuto opposto dal diretto interessato.
Intanto i funzionari di etnia Pashtun ancora operativi nei Ministeri dell’Interno e della Difesa, consapevoli delle sorti che attendevano la moribonda RDA e, perciò, propensi a collaborare coi vincitori, avevano allentato le misure di sicurezza predisposte per la difesa della capitale. Tale espediente avrebbe permesso alle truppe del Partito islamico (Hezb–i Islami) di occuparne i centri nevralgici, ponendo in tal modo le solide premesse per una sua espugnazione definitiva. Fu proprio il timore che Hekmatyar potesse sfruttare un simile vantaggio per estendere la propria influenza sull’intero Paese a spingere gli adepti della Società Islamica (Jamiat-i Islami)[8], nella giornata del 24 aprile, a dare inizio ad una lotta fratricida destinata a concludersi con l’espulsione delle milizie avversarie dopo settantadue ore di feroci combattimenti. Nondimeno, la necessità di preservare l’intesa faticosamente raggiunta dopo anni di trattative e di comune militanza persuase le maggiori correnti antigovernative, riunitesi ancora una volta a Peshawar con la sola eccezione dell’Hezb–i Islami, a continuare l’esperimento della dirigenza collettiva proclamando la nascita dello Stato islamico dell’Afghanistan. La presidenza ad-interim venne così affidata a Sibghatullah Mojaddedi (1925-2019).
A dispetto delle buone intenzioni che avevano animato i promotori dell’accordo, ora più che mai risoluti nel gettare le fondamenta per un Afghanistan libero e in pace dopo un conflitto proseguito per ben quattordici anni, l’avvento di nuovi attori politici e l’eccessiva segmentazione del tessuto sociale avrebbero svolto un ruolo decisivo nel condurre la giovane repubblica al collasso. Per comprendere le ragioni alla base di un’esistenza così effimera, è opportuno consultare la testimonianza della professoressa Meredith Runion che, nelle pagine dell’opera The history of Afghanistan, riporta quanto segue:
Gli Stati Uniti erano entusiasti nel vedere che le forze dei mujāhidīn avevano espulso con successo i sovietici, eliminando così la minaccia della Guerra Fredda per il controllo del petrolio nel Golfo Persico. Nondimeno, il problema di questa vittoria si verificò dopo la sconfitta e il disimpegno delle forze sovietiche, visto che gli USA fecero poco per aiutare il Paese. Una volta affermatasi nell’area, Washington perse interesse nell’Afghanistan e non contribuì alla ricostruzione di questo territorio sconvolto dalla guerra […] Come risultato, le forze dei mujāhidīn si rivoltarono le une contro le altre dopo l’evacuazione dei russi. Le armi fornite dagli Stati Uniti non furono più utilizzate contro i sovietici, bensì contro i guerriglieri, causando la morte di cittadini afghani e trascinando il Paese in una guerra civile.
Runion. M.L., The history of Afghanistan, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara, 2007, p. 119.
L’episodio chiave per la ripresa delle ostilità si consumò nella giornata del 29 maggio quando Mojaddedi, al termine di un incontro con Hekmatyar volto a includerlo nella squadra di governo, accusò quest’ultimo di aver dato ordine di abbattere il suo aeroplano mentre stava tornando dal Pakistan. Nei quattro anni successivi Kabul, un tempo cuore pulsante del Paese e quintessenza della dicotomia che per secoli aveva contrapposto la città (shahr) alla provincia (atraf), divenne teatro di scontri violentissimi tra fazioni sino ad allora unite nella crociata contro i miscredenti del PDPA. Tra le più importanti occorre menzionare i “lealisti” della Società Islamica, schieratisi a fianco del nuovo Capo di Stato Burhānuddīn Rabbānī (1940-2011) e guidati dall’eclettico Massoūd; quella del Movimento Islamico Nazionale dell’Afghanistan (Junbish-i-Milli Islami Afghanistan), organizzazione fondata da Dostum nel marzo del 1992 per rappresentare l’etnia tagika; il Partito di Unità Islamica dell’Afghanistan (Hezb-e Wahdat-e Islami Afghanistan), creato nel 1989 dall’unione di nove gruppi guerriglieri di confessione sciita; la setta fondamentalista dei Talebani.
L’ASCESA DEI TALEBANI E IL TRIONFO DEL FONDAMENTALISMO ISLAMICO
Prima di addentrarci nella trattazione degli eventi che si consumarono a cavallo tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, è opportuno riservare un piccolo spazio all’analisi di questa corrente politico-religiosa istituita, nel corso del 1994, dal mullah[9] Mohammed Omar (1960-2013). Composta in massima parte da allievi di scienze religiose provenienti dalle regioni sud-orientali [10], la fronda dei Talebani si differenziava dagli altri zeloti per l’interpretazione letterale dei precetti coranici, auspicando l’edificazione di una società ultra-conservatrice modellata a partire dalla Shari’a[11]. All’indomani del disimpegno delle forze sovietiche, infatti, diverse frange del popolo afghano avevano incominciato a manifestare una crescente insofferenza nei confronti delle angherie, della brutalità e della corruzione dei mujāhidīn, solerti nel ricorrere alla forza delle armi per imporre la propria volontà sui civili inermi. Ci rivela in un interessante retroscena l’autrice Meredith Runion:
[…] prima della nascita ufficiale del movimento talebano, un chierico musulmano di nome Mohammed Omar fu disgustato dall’inquietante notizia secondo cui diversi mujāhidīn avrebbero catturato due giovani ragazze per stuprarle. Furioso per il quinquennio di corruzione e depravazione che questi presunti “guerrieri islamici” avevano portato in Afghanistan, Omar radunò una cinquantina di studenti dalle madrasa locali (considerate scuole religiose o seminari) e li condusse all’accampamento dei mujāhidīn, liberando le adolescenti e impiccando un paio criminali […] Rinvigoriti dall’aver dato inizio a questa sequela di sconfitte contro le forze dei mujāhidīn nell’Afghanistan meridionale, i Talebani si unirono ufficialmente per conquistare le restanti città nel Paese e sradicare la corruzione.
Runion. M.L., The history of Afghanistan, Greenwood Publishing Group, Santa Barbara, 2007, p. 121
Cruciali nel garantirne il successo furono quindi i proseliti raccolti fra gli autoctoni, convinti che l’origine delle loro sofferenze risiedesse nell’affievolimento dal fervore religioso causato dal materialismo e dalla secolarizzazione dei costumi, nonché l’appoggio logistico offerto da un Pakistan intenzionato a favorire l’insediamento di un regime amichevole. Non fu certo un caso se, a dispetto dei rovesci inizialmente sofferti ad opera del “Leone del Panjshir” e dei suoi alleati, le milizie di Omar riuscirono a estendere il proprio controllo sui tre quarti del territorio nazionale, occupando Kabul al termine di feroci combattimenti (27 settembre 1996). Tra le vittime più illustri di quelle orribili giornate figurava l’ultimo segretario del PDPA, Mohammad Najibullah: rifugiatosi nel compound delle Nazioni Unite dopo che gli uomini di Dostum gli avevano interdetto l’accesso all’aeroporto, Najibullah fu seviziato con torture talmente brutali da renderlo, al momento dell’esposizione al pubblico, quasi irriconoscibile.
Una volta neutralizzata la minaccia delle altre fazioni che si erano ricostituite nel Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan, invero confinato tra i massicci dell’Hindu Kush dal quale avrebbe diretto l’attività di guerriglia, i Talebani poterono finalmente proclamare la rinascita dell’Emirato islamico (Da Afghanistan Islami Amarat) e porre in essere quei programmi necessari a riportare la religione al centro della vita quotidiana. Nei cinque anni successivi, il fanatismo di cui il nuovo regime si era reso interprete, unito alle iniziative retrograde imposte attraverso la coercizione fisica e psicologica, finirono per instaurare un clima di terrore talmente diffuso da sconvolgere l’opinione pubblica mondiale. Agli uomini venne prescritto di lasciarsi crescere la barba e di indossare il turbante come richiesto dalla tradizione, mentre alle donne fu proibito di ricercare un’occupazione lavorativa, di ricevere un’educazione scolastica e di lasciare il focolare domestico senza aver prima indossato il burqa. Qualsiasi trasgressione della legge coranica e dei dettami del Sommo Profeta sarebbe stata punita con misure draconiane e, non meno sovente, con la pena capitale.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Con l’espressione “Grande Gioco” si è soliti indicare quel confronto economico, militare e spionistico che ha contrapposto, fra il 1807 e il 1907, l’impero zarista a quello inglese. Il principale terreno di scontro tra i due key player fu l’Emirato dell’Afghanistan, divenuto nel 1893 un apposito Stato cuscinetto grazie alla demarcazione della cosiddetta “Linea Durand”.
[2] Il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) è stato un’organizzazione politica di chiaro indirizzo filo-marxista. Per eventuali approfondimenti circa le iniziative e la storia di quest’organizzazione partitica, si rimanda il lettore all’articolo “Afghanistan 1979-1989 – Atto I: la Rivoluzione di Saur“.
[3] Mohammad Najibullah (1947-1996) è stato uno degli uomini più importanti all’interno del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan. Direttore del servizio di intelligence (KHAD) tra il 1980 e il 1985, negli anni successivi riuscì a imporsi come figura chiave nella fragile Repubblica Democratica, cumulando le cariche di Segretario Generale (1986-1992) e di Capo di Stato (1987-1992). Morì il 27 settembre 1996, assassinato dai Talebani al termine dell’espugnazione di Kabul.
[4] Con l’espressione mujāhidīn si è soliti indicare quei guerriglieri islamici operativi in Afghanistan tra il 1978 e il 1996. Volendo attenersi a un’interpretazione letterale in grado di preservarne il significato più autentico, un mujāhid sarebbe colui che si sforza di agire nel rispetto dei principi indicati dal Corano, condotta imprescindibile per assicurare il luminoso avvenire dell’Islam e la salvezza della propria anima. Viceversa, alla base della concezione militante che siamo soliti attribuirle troviamo il precedente offerto da Syed Ahmad Shaheed Barelvi (1786-1831), predicatore indiano di confessione sunnita e pioniere di un movimento politico, religioso e guerrigliero che intendeva opporsi ai nemici del profeta Maometto ricorrendo alla forza delle armi.
[5] Conosciuto attraverso l’epiteto suggestivo di “Leone del Panjshir”, il tagiko Ahmad Shāh Massoūd (1953-2001) è stato, negli anni dell’invasione sovietica, uno dei capi militari più iconici della Resistenza afghana, tentando in un secondo momento di arginare l’ascesa dei Talebani dopo che questi avevano assunto il controllo delle province meridionali del Paese. Rimase ucciso in seguito ad un attentato ordito il 9 settembre 2001.
[6] Repubblica Democratica dell’Afghanistan, n.d.a.
[7] Nato il 26 giugno 1947 a Kunduz, nell’omonima provincia dell’Afghanistan settentrionale, Gulbuddin Hekmatyar è stato uno dei leader politici più importanti negli anni della resistenza all’occupazione sovietica. L’inestinguibile fervore religioso gli valse la guida dell’ala radicale dell’Hizb-i islami (Partito Islamico), un’organizzazione partitica fondata negli anni ’70 sulla falsariga della confraternita dei Fratelli Musulmani.
[8] Assieme all’Hizb-i Islami, all’Harakat-i inqlab-i islami (Movimento Islamista per l’Afghanistan), allo Jabha-yi nejat-i milli (Fronte di Liberazione Nazionale) e al Mahaz-i islami (Fronte Islamico), lo Jamiat-i Islami è stato uno dei partiti politici più importanti nel fronte della Resistenza anti-comunista.
[9] Il mullah è un uomo o una donna di religione musulmana esperto di teologia e della sharīʿa.
[10] L’espressione ṭāleb sta ad indicare coloro che sono stati educati nelle màdrasa, ossia negli scuole superiori per il perfezionamento delle conoscenze teologiche e giurisprudenziali
[11] Con l’espressione Shari’a, letteralmente “Strada battuta”, si è soliti indicare la legge sacra non elaborata dagli uomini perché imposta da Dio.
L’ha ripubblicato su La Minerva.
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