18 aprile 1948, Italia

Con un tasso di affluenza superiore al 92%, uno dei più alti mai registrati nel corso dell’intera parabola repubblicana, si svolgono le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Sono due gli attori che si contendono l’egemonia sull’agone politico: la Democrazia Cristiana (D.C.), movimento di ispirazione confessionale fondato nel marzo del ‘43; il Fronte Democratico Popolare (FDP), coalizione composta dal PSI e dal PCI[1].

Tra le principali sfide che attendevano Alcide De Gasperi (1881-1954), leader di un nuovo governo di unità nazionale costituitosi nel luglio del ‘46, figurava la rapida alterazione degli equilibri post-bellici: al venir meno della “Grande Alleanza” che aveva trionfato sul nazifascismo, nel maggio del ’45, andavano sommate le pressioni della Santa Sede rispetto ai proseliti raccolti dalla CGIL. Quest’ultime avrebbero potuto ledere irrimediabilmente i rapporti fra democristiani, comunisti e socialisti unitari, se Pio XII (1876-1958) non avesse acconsentito a prolungare la vita dell’intesa tripartitica[2].

Oltre ad aver eroso le fondamenta dell’esecutivo, l’intensificarsi del confronto bipolare si rivelò più che sufficiente per risvegliare, tra le fila del PSIUP[3], quelle spinte centrifughe mai del tutto sopitesi. Cruciale in tal senso fu la decisione del segretario Pietro Nenni (1891-1980) di non appoggiare, in ottemperanza al patto di unità d’azione sottoscritto con Palmiro Togliatti (1893-1964), la linea antisovietica adottata dal COMISCO[4]: essa avrebbe infatti condotto, nel gennaio del 1947, alla fuoriuscita dell’ala coagulatasi attorno a Giuseppe Saragat (1898-1988), la quale assunse la denominazione provvisoria di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).

Non deve quindi sorprendere il passaggio dei socialcomunisti, al momento della crisi governativa verificatasi nel maggio seguente, tra le fila dell’opposizione, logica conseguenza di una dottrina Truman che aveva ufficializzato lo scoppio della Guerra Fredda. L’ondata di scioperi e di agitazioni contro il carovita ebbe, tuttavia, il solo effetto di risvegliare l’antica paura di un contagio rivoluzionario, spingendo le classi medie fra le braccia di una D.C. che aveva saputo ergersi a baluardo dell’ordine statuito. Altrettanto dannosa fu la contrarietà ai finanziamenti che giungevano dagli USA nell’ambito del Piano Marshall, accolti con sollievo da una comunità impegnata nella scommessa di rilanciare il Paese. Il brusco epilogo della strategia di cooptazione, esacerbato dalla disputa internazionale fra Washington e Mosca per il controllo sui Dardanelli, avrebbe infine convinto il Partito Repubblicano (PRI) e il PSLI ad appoggiare il quarto mandato degasperiano (31 maggio 1947-12 maggio 1948), superando così l’antico pregiudizio laico.

L’approvazione della legge fondamentale, nella giornata del 22 dicembre, rappresentò dunque l’atto conclusivo della stagione consociativista apertasi tre anni prima a Salerno, ora accantonata in favore di una competizione elettorale scandita da toni infuocati. Altri key players sarebbero intervenuti dall’esterno per sbarrare la strada al Fronte Democratico: il Vaticano, capace di mobilitare schiere di sacerdoti nell’ambito di una veemente campagna anticomunista; gli Stati Uniti d’America, presentati alla stregua di un’Arcadia felice disposta a condividere il proprio benessere in cambio di un semplice voto. Non meno determinanti nel convincere i cittadini a votare in massa la D.C. furono, soprattutto nelle zone rurali, i richiami alla religiosità e alla miseria dilagante in Russia.

Con la tornata del 18 aprile, la Democrazia Cristiana si confermò ancora una volta nel ruolo di prima forza del Paese, ottenendo il 48,5% dei consensi: oltre alla spaccatura consumatasi all’interno del PSI, relegato al ruolo di comprimario con appena il 9% delle preferenze, il cartello delle Sinistre scontava infatti una palese incapacità nell’attrarre a sé l’intero bacino elettorale del Partito d’Azione (PdA). Circostanza, questa, assai diversa rispetto a quanto verificatosi nel Movimento Sociale (MSI), in grado di sfruttare il declino dei qualunquisti[5] per accedere in Parlamento.

Le elezioni del ‘48 hanno sancito l’inizio di una prassi politica destinata a perpetuarsi fino alla caduta dell’esecutivo Tambroni, nel luglio del 1960, costruita sull’egemonia dell’asse D.C.-PSLI-PLI-PRI. Nondimeno, se è vero che la formula centrista ha assicurato l’esercizio del potere neutralizzando i poli antidemocratici, è altrettanto innegabile che abbia impedito il naturale avvicendamento fra maggioranza e opposizione, contribuendo in tal modo alla deresponsabilizzazione della classe dirigente. Fu proprio l’ingresso nel Patto Atlantico a ufficializzare l’esclusione dei partiti estremisti, vuoi perché legati a doppio filo con Mosca, vuoi perché passibili di attentare alle istituzioni liberali. In sintesi, la conventio ad excludendum è stata la risposta governativa a uno dei periodi più tesi nella cornice della Guerra Fredda, caratterizzato da un’escalation del confronto fra le superpotenze come accaduto durante il blocco di Berlino (1948-1949) e, soprattutto, in occasione del conflitto coreano (1950-1953).

Analizzando con maggior attenzione il panorama italiano, si possono invece cogliere il senso di smarrimento e di profonda frustrazione imperanti nel PSI, squassato dalla lotta intestina fra i sostenitori dell’alleanza col PCI e i fautori di un indirizzo più autonomista. Ciò risultò evidente in seguito al passaggio di consegne fra Nenni e Alberto Jacometti (1902-1985), nel luglio del 1948, propedeutico a invertire il trend negativo cominciato con la scissione di Palazzo Barberini. Un disegno che, col senno di poi, si sarebbe rivelato troppo ambizioso per un partito indebolito dalla recente espulsione dal COMISCO, al punto da spianare la strada per il ritorno dello storico Segretario.

In conclusione, è lecito affermare che la parabola della prima legislatura (1948-1953) sia stata dominata da un clima di tensione che rischiò, in alcuni casi, di degenerare nello scontro violento: emblematica fu la crisi scaturita dalla mobilitazione di piazza indetta dalla CGIL in risposta all’attentato contro Togliatti (14 luglio 1948), rientrata grazie alla lucidità dei dirigenti comunisti che scartarono qualsiasi progetto insurrezionale. Scelta assennata, nell’ottica di quella strategia di legittimazione perseguita fin dal 1944, ma non esente da contraccolpi, come la rottura dell’unità sindacale e la strumentalizzazione dell’episodio in chiave reazionaria.

Niccolò Meta

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1]Partito Socialista Italiano (PSI) e Partito Comunista Italiano (PCI).

[2]Tale scelta era motivata dalla volontà di includere il Concordato all’interno del testo costituzionale (art 7).

[3]Il Partito Socialista di Unità Proletaria fu una forza politica attiva dal 1943 al 1947, nata dalla fusione tra il PSI e il Movimento di Unità Proletaria.

[4]Il Comitato della Conferenza Socialista Internazionale (COMISCO), nato nel 1947, includeva un rappresentante per ciascun partito membro. Concluse la propria attività nel 1951, quando si optò per ricostituire l’Internazionale Socialista.

[5]Fondato nel corso del 1944 dal giornalista e drammaturgo Guglielmo Giannini (1891-1960), il Fronte dell’Uomo Qualunque polemizzava apertamente con il pluralismo politico esploso dopo la caduta del fascismo, facendo della critica alla “partitocrazia” il proprio cavallo di battaglia.

S. Colarizi, “Storia politica della Repubblica. 1943-2006: Partiti, movimenti e istituzioni”, Editori Laterza, Bari, 2007.

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