26 aprile 1986, Černobyl’

Nel corso di un test di “sicurezza” condotto nella centrale elettronucleare V.I. Lenin, il reattore n.4 resta coinvolto in un drammatico meltdown[1] che rilascia enormi quantitativi di materiale fissile.
Nei giorni a seguire, una volta compresa la gravità dell’episodio, le autorità di Mosca procederanno all’evacuazione dei cittadini residenti entro un raggio di 30 km dalla struttura: un provvedimento tardivo, dettato dal rapido innalzarsi dei livelli di radioattività.

Le cause del disastro sono riconducibili a un insieme di fattori strettamente legati fra loro. Oltre alla violazione di qualunque protocollo operativo, frutto dell’azzardo nel simulare un’improvvisa mancanza dell’alimentazione elettrica, l’unità RBMK-1000 scontava molteplici lacune sotto il profilo progettuale: l’esistenza di un coefficiente di vuoto positivo[2], ad esempio, determinava una cronica instabilità ai bassi regimi, conducendo nei casi più estremi al surriscaldamento del nocciolo. Commentava in proposito Richard Wilson (1926-2018), fisico anglo-americano di fama internazionale:

Il reattore RBMK-1000 è stato sviluppato da un precedente modello militare impiegato per la produzione del plutonio […] 30.000 barre di combustibile, suddivise a gruppi di 18, sono contenute in 1.670 tubi per la pressione […]. L’acqua viene utilizzata per smaltire il calore e per creare vapore che spinge le due turbine, ciascuna da 500 megawatt. Quando il liquido bolle c’è meno idrogeno per catturare i neutroni, ergo la sua potenza tende a salire. Se non monitorata, essa può crescere fino a livelli ingestibili […] il tipo RBMK-1000 include un certo numero di eccellenti misure protettive […] tuttavia, benché la moderazione a grafite utilizzata per rallentare i neutroni sia sigillata da gas inerte, essa non può sopportare un’esplosione o un analogo incremento della pressione. Il reattore è schermato da mura solide, ma non in alto […] In aggiunta, secondo alcuni rapporti, ci sarebbe stata un’anomala concentrazione di materiale infiammabile nei corridoi sopra il reattore, e il controllo qualità sarebbe stato scadente.

R.Wilson, “Chernobyl: assessing the accident”, Issues in Science and Technology Vol. 3, No. 1 (autunno 1986), pp. 21-29
Un documentario tratto dal programma televisivo “Quark”, incentrato sulla catastrofe di Černobyl’.

Non meno rilevante ai fini dell’incidente si rivelò l’imperizia del personale tecnico e dirigenziale: in un eccesso di cautela, l’ingegnere capo Nikolai Fomin aveva disattivato il sistema per il raffreddamento d’emergenza, temendo che il contatto tra la pila atomica e il refrigerante potesse condurre a uno shock termico. Altrettanto discutibile fu la decisione di svolgere la verifica nelle ore notturne, quando gli addetti più qualificati non prestavano servizio.

All’01:23:04 Anatolij Djatlov, all’epoca vicedirettore della centrale in virtù della lunga esperienza maturata sul campo, diede disposizioni per l’arresto delle turbine. È bene sottolineare come, nonostante l’importanza di un simile passaggio, l’unità 4 non stesse operando in un contesto di sicurezza: il graduale aumento della reattività e la rimozione di diverse barre di controllo stavano infatti alterando il precario equilibrio del nucleo, senza che l’organico fosse riuscito a circoscrivere il problema. Neanche un minuto dopo, all’01:23:44, si mise in moto una catena di eventi che avrebbe cambiato per sempre le vite di migliaia di persone: il reattore raggiunse un picco di potenza pari a 30.000 megawatt termici, probabilmente dovuto all’attivazione manuale dello SCRAM[3]; il combustibile in uranio cominciò quindi a fondere, causando l’evaporazione dell’acqua ancora presente nel circuito; la rottura delle tubazioni divenne allora una conseguenza inevitabile, cruciale nel far sì che il corium[4] fuoriuscito innescasse una violenta deflagrazione; infine, pur avendo una mole di circa 1.000 tonnellate, la copertura in cemento venne scagliata in aria dalla forza dell’impatto, lasciando così il nocciolo esposto all’ambiente esterno.

L’aspetto più tragico dell’intera vicenda rimane, tuttavia, la clamorosa impreparazione nel gestire quella che sarebbe diventata la catastrofe nucleare per antonomasia. Piuttosto indicativa risultò essere la mancanza di strumenti idonei a “leggere” l’esatto livello delle radiazioni, al punto che Djatlov si convinse di come l’impianto non avesse subito danni critici. Appena qualche minuto dopo, i contatori Geiger avrebbero invece riscontrato valori equivalenti a 20.000 röntgen/ora, ossia 5.000 volte superiori in rapporto alle stime iniziali. Un discorso analogo valeva per le squadre antincendio incaricate di estinguere le fiamme, le quali si erano già estese al tetto del reattore adiacente[5]: una missione suicida, vista la completa assenza di tute protettive, culminata nella morte di decine di uomini avvelenati dal cesio e dai vapori tossici. Con il trascorrere delle settimane, la nube radioattiva avrebbe raggiunto buona parte del continente europeo contaminando raccolti, falde acquifere e migliaia di metri quadrati di territorio. Nondimeno, perché il governo sovietico riconoscesse l’accaduto bisognò attendere la sera del 28 aprile, quando il telegiornale Vremja accennò ai motivi dietro al trasferimento forzoso di oltre 40.000 civili.

Le procedure di bonifica furono avviate nelle ore successive al disastro, arrivando a coinvolgere ben 240.000 liquidatori” nel solo biennio 1986-87. Tale formula, destinata a entrare nell’immaginario collettivo grazie all’ampio rilievo mediatico, includeva il personale preposto a rimuovere i detriti e a raffreddare il basamento della pila, nonché a ricostruire il “sarcofago” esterno. Secondo il rapporto stilato nel 2006 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), fu proprio quest’ultima categoria ad aver assorbito i maggiori quantitativi di radiazioni, calcolati intorno ai 120 millisievert annui.[6]

Fra l’8 e il 30 luglio 1987, mentre le attività di decontaminazione proseguivano a ritmi frenetici, a Černobyl’ si apriva il processo contro il personale in servizio la notte del 26: Anatolij Djatlov, riconosciuto colpevole della “gestione criminale di un complesso potenzialmente esplosivo”, fu condannato a un decennio di reclusione; a Viktor Brjuchanov, ex direttore della centrale nucleare, vennero comminati dieci anni di lavori forzati per “abuso di potere e gravi violazioni delle norme di sicurezza”; pene simili toccarono all’ingegnere Nicolai Fomin (10 anni), al responsabile per la vigilanza Boris Rogozhkin (5 anni), al supervisore Aleksandr Kovalenko (3 anni) e a Jurij Lauškin, ispettore per la Gosatomnadzor (2 anni). Molti di loro, però, furono graziati dall’amnistia generale concessa dal governo sovietico nel 1990.

A fronte dell’imponente mole di studi condotti sul tema, il numero totale dei decessi per tumori e leucemie resta, ancora oggi, argomento di dibattito: prendendo per buone le analisi svolte dal Chernobyl Forum, meeting istituzionale promosso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), le vittime accertate ammonterebbero a 69 tra residenti e personale di soccorso, anche se le proiezioni su un periodo di ottant’anni arriverebbero a 4.000 casi. Cifre che impallidiscono se confrontate con quelle di Greenpeace (2006), secondo cui il bilancio più verosimile sfiorerebbe, nell’arco di un settantennio, le 6.000.000 di unità.[7]

Niccolò Meta

La Minerva


NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] L’espressione meltdown indica il danneggiamento del nocciolo in seguito al surriscaldamento dello stesso.

[2] Con coefficiente di vuoto si intende la variazione della reattività della pila quando parte del moderatore/raffreddatore (acqua) viene trasformato in vapore.

[3] Lo SCRAM è un sistema per l’arresto di emergenza di un reattore nucleare.

[4] Il corium è un materiale che si viene a creare nel nocciolo di un reattore durante la fusione dello stesso.

[5] Per quanto anomalo possa sembrare, l’unità 3 era rimasta in funzione sino a qualche minuto prima, nonostante i pericoli derivanti dallo scenario poc’anzi delineato.

[6] Organizzazione Mondiale della Sanità, “Health Effects of the Chernobyl Accident”, Ginevra, 2006.

[7] Greenpeace, “The Chernobyl Catastrophe Consequences on Human Health”, 2006.

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