La guerra d’Etiopia (1935-36) – Atto I

È stato un Ambaradan. Chi di noi non ha mai sentito questo termine, almeno una volta nella vita? Eppure sono ben pochi a ricordarne l’origine.

Quella del colonialismo italiano è stata una parabola breve e anacronistica, figlia di velleità imperiali che tramontarono così come erano cominciate: rapidamente e in maniera improvvisata.

Ancora oggi il nostro popolo fatica a delineare un quadro realistico dell’intera vicenda, soprattutto a causa delle scarse informazioni disponibili per avviare un dibattito pubblico; del resto la situazione imperante nel dopoguerra era talmente delicata da sconsigliarne la trattazione, al punto che i mondi accademico e storiografico hanno preferito concentrarsi su altri avvenimenti.

Pertanto, quando ci si appella alla memoria collettiva è possibile riscontrare l’esistenza di due schieramenti antitetici: chi si nutre del mito degli “italiani brava gente“, ossia una posizione autoassolutoria secondo cui la nostra condotta fu meno criticabile rispetto ai cugini europei; coloro che, spesso per motivazioni ideologiche, ritengono che l’eredità della dominazione nostrana sia consistita nella sola violenza, nel razzismo e nei crimini agghiaccianti.

Come spesso accade nella storia umana, la situazione è molto più complessa rispetto a quanto potrebbe sembrare a un primo sguardo.

LA PRIMA FASE DEL COLONIALISMO ITALIANO

L’avventura coloniale italiana ebbe inizio sul finire del XIX secolo, quando sotto la presidenza di Agostino Depretis vennero occupati due porti sul Mar Rosso: Assab e Massaua[1]. Nel quarantennio successivo furono invece avallate una serie di spedizioni per sottomettere l’Eritrea, la Somalia e la Libia, quest’ultima strappata all’impero ottomano con la guerra del 1911-12.

Per giustificare un simile espansionismo, i sostenitori dell’iniziativa ribadivano l’esigenza di offrire ai braccianti uno sbocco dove ricercare nuove opportunità, anche se all’atto pratico i cittadini coinvolti non erano che qualche migliaio. Commenta a riguardo Emanuele Ertola, autore del volume “In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero”:

I flussi migratori non seguono la bandiera, ma l’opportunità di lavoro e di miglioramento della propria condizione di vita. Gli emigranti italiani questa speranza la trovarono nell’America del Nord e del Sud, in Francia. Anzi, paradossalmente preferirono emigrare nelle colonie africane delle altre potenze europee, piuttosto che andare in quelle italiane.

In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero“, di Emanuele Ertola

I motivi dietro a un’adesione così ridotta non debbono essere dunque ricercati nella mera inospitalità delle regioni, ma anche e soprattutto nell’incapacità delle amministrazioni locali di pacificare l’entroterra. Tale ostacolo avrebbe contribuito in misura determinante all’archiviazione, seppur temporanea, dei disegni egemonici sul Corno d’Africa. Piuttosto emblematiche risultarono essere le dispute territoriali consumatesi con la vicina Etiopia, quando le mire espansionistiche sul Tigrè e l’ambiguità del trattato di Uccialli alimentarono, in ultima istanza, una serie di schermaglie culminate nella sconfitta dell’Amba Alagi: qui il ras Mekonnèn Uoldemicaèl, forte di un esercito di 30.000 effettivi, avrebbe massacrato non meno di 2.300 ascari, spianando la strada alla resa del presidio di Macallè. Fu allora che Roma organizzò una spedizione “punitiva” sotto il comando del tenente generale Oreste Baratieri che, dopo un periodo di titubanza, commise l’errore fatale di addentrarsi in territorio nemico, verso Adua. Sorpresi in ordine di marcia, 18.000 combattenti vennero ingaggiati da forze cinque volte superiori, subendo perdite ingentissime. Quest’ennesimo smacco avrebbe condotto al trattato di Addis Abeba che, per evitare ulteriori fraintendimenti, venne redatto sia in francese che in amarico.

IL PRELUDIO

Stando al giudizio dello storico Angelo Del Boca, una chiara avvisaglia delle rinnovate ambizioni imperialiste sull’Abissinia giunse nel luglio del 1925, data in cui Mussolini indirizzò una lettera al principe Pietro Lanza di Scalea, Ministro delle Colonie, perché il Regno si preparasse:

[…] militarmente e diplomaticamente, approfittando di un eventuale sfasciamento dell’impero etiopico. Nell’attesa, lavorare in silenzio, sin dove sia possibile, in collaborazione con gli inglesi.

Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale“, di Simone Belladonna

Ad avvalorare questa tesi contribuisce la testimonianza dell’imperatore Hailé Selassié, memore durante la sua visita in Italia (1924) dei continui avvertimenti circa un eventuale conflitto. In seguito il Negus avrebbe raccontato che, nonostante il trattato di amicizia sottoscritto nel 1928, il regime avesse da tempo avviato le preparazioni per un attacco all’Etiopia. Ne derivava che gli sforzi profusi affinché lo Stato africano venisse accolto nella Società delle Nazioni servissero, in realtà, a dissimulare qualsivoglia intenzione bellicosa.

Sempre nel corso di quello stesso anno, Palazzo Chigi[2] aveva peraltro concluso un accordo segreto con l’Inghilterra per sancire le rispettive zone d’influenza, mentre Roma destabilizzava la monarchia abissina corrompendo alcune delle figure pubbliche più importanti. Non possiamo infine prescindere dai documenti per ricostruire quando, in effetti, l’opzione militare sia stata presa irrevocabilmente. Rientrando da una viaggio in Eritrea Emilio De Bono, all’epoca Ministro delle Colonie, avrebbe infatti comunicato al Duce (22 marzo 1932):

«L’Abissinia è un’incognita non ancora paurosa, ma che può diventarlo. Se Selassié continuerà a organizzare forze regolari – come sta facendo – bisognerà pensare seriamente ai fatti nostri. Un nostro intervento armato in forze che ci desse un successo militare stabilizzerebbe per anni la nostra situazione. Ma è inutile pensarci adesso. Esso comporterebbe un lungo lavoro di preparazione e centinaia di milioni di spesa, che sarebbero meglio impiegati altrove».

Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale“, di Simone Belladonna

Pur lasciando intravedere la possibilità di un intervento armato, il gerarca aveva quindi suggerito di rimandarlo finché i tempi non fossero stati maturi. Nondimeno, egli raccomandava un’azione congiunta con le cancellerie di Londra e Parigi, propedeutica al raggiungimento dell’obiettivo finale.

Quel che è certo è che, il 29 novembre successivo, De Bono sarebbe passato ai fatti:

Oggetto: preparazione militare in Africa orientale

[…] Indirizzata così la preparazione militare, è possibile ora guardare con un senso di maggiore realtà alla risoluzione del problema etiopico. Considereremo due ipotesi che, a mio avviso, contemplano tutte le possibilità di eventuali conflitti con l’Abissinia:

1. Ipotesi che chiamerò offensiva, e che corrisponde alla decisione di effettuare occupazioni territoriali in quel Paese per il raggiungimento delle nostre finalità politiche ed economiche. Dirò subito che una tale eventualità esige il presupposto politico di un’intesa con la Francia e l’Inghilterra.

2. […] Ipotesi che chiamerò difensiva, e che corrisponde al caso in cui non sia possibile alla madrepatria inviare forze in colonia, o che essa venga aggredita prima che tali forze abbiano la possibilità di giungere.

Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale“, di Simone Belladonna

Nel resto della lettera, il generale abbozzava invece le linee guida per un piano di aggressione, con tanto di consigli strategici su come e dove intraprendere le operazioni.

Intanto, Mussolini accentrava nelle proprie mani sempre più potere: il 21 luglio 1933 liquidava Pietro Gazzera assumendo la responsabilità del dicastero della Guerra, nominandone sottosegretario il fedele Baistrocchi; quattro mesi più tardi fu la volta dei ministri dell’Aeronautica, Italo Balbo, e della Marina, Giuseppe Sirianni. Il significato politico dietro a queste manovre era inequivocabile: il capo del governo era ormai votato all’apertura delle ostilità, e ogni singolo trionfo non sarebbe stato condiviso con altri attori.

Tra le poche voci ostili all’avventura bellica figurava il summenzionato Baistrocchi, il quale seppur responsabile dell’aspetto logistico non aveva mancato di palesare dubbi sulle conseguenze a lungo termine. Tali remore, unite alle manovre ordite da Badoglio per esautorarlo[3], avrebbero contribuito in ultima istanza a un suo allontanamento

I progetti dell’establishment per soggiogare l’Abissinia non mancarono poi di alimentare i contrasti fra Palazzo Esercito[4] e quello della Consulta[5]: il primo aveva infatti visionato una campagna di tipo “europeo”, ossia basata sull’impiego estensivo e coordinato di artiglieria, dell’aviazione e degli automezzi; viceversa, il secondo ipotizzava un conflitto più tradizionale dove la leadership sarebbe spettata ai vecchi esperti coloniali. A dirimere la querelle fu il Duce in persona che, con una scelta a sorpresa, non si limitò a nominare De Bono comandante, ma diede istruzioni affinché il progetto vedesse la luce entro il 1936.

DAI CONTRASTI INTERNI ALLA PREPARAZIONE MILITARE

In occasione dell’incontro svoltosi nella giornata dell’8 febbraio 1934, la decisione di invadere l’Etiopia rimaneva ben lungi dall’essere irreversibile: bisognò attendere altri due mesi perché Vittorio Emanuele III, rinfrancato dallo stanziamento dei fondi speciali e dalla soluzione della diatriba infraministeriale, garantisse il proprio beneplacito. Nel frattempo, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Bonzani denunciava la superficialità con cui il Ministro delle Colonie stava gestendo l’intera situazione, questionando la scelta di anteporre i problemi in Africa a quelli del Vecchio Continente.

Ciò spiega il perché dietro al fiorire di piani alternativi per la mobilitazione, improntati sulle direttive fornite dallo stesso Badoglio in una missiva del 26 aprile: in essa venivano stabiliti diversi punti fermi come l’esigenza di dispiegare tre divisioni nazionali e una di riserva, una settantina di aeroplani con compiti di appoggio e, infine, 30.000 truppe indigene invece delle 60.000 designate in origine.

Benché la nuova impostazione avesse ottenuto l’imprimatur di Mussolini, il dittatore non intendeva in alcun modo estromettere De Bono dai preparativi bellici: con l’esautorazione di Bonzani, nel settembre successivo, venne infatti tolta di scena l’unica figura che aveva osato anteporre la sicurezza nazionale alle velleità imperiali, permettendo così un ulteriore accentramento delle responsabilità militari nelle mani dell’esecutivo. Complice il sensibile peggioramento dei rapporti bilaterali con Addis Abeba, il Duce avrebbe finalmente redatto il suo celebre promemoria indirizzato alle più alte autorità del regime (30 dicembre 1934), manifestando l’intenzione di colpire l’Etiopia vista la remota eventualità di un conflitto europeo. Si poteva leggere nel documento:

Oggetto: direttive e piano d’azione per risolvere la questione italo-abissina

Il problema dei rapporti italo-abissini si è spostato in questi ultimi tempi su un piano diverso: da problema diplomatico è diventato un problema di forza; un problema “storico” che bisogna risolvere con l’unico mezzo con il quale tali problemi furono sempre risolti: coll’impiego delle armi.

[…] Tenendo conto di quanto precede, bisogna trarre la prima logica conclusione: il tempo lavora contro di noi. Più tarderemo a liquidare il problema e più sarà difficile il compito e maggiori i sacrifici. Seconda e non meno logica conclusione: bisogna risolvere il problema il più presto possibile, non appena cioè i nostri apprestamenti militari ci diano la sicurezza della vittoria.

Decisi a questa guerra, l’obiettivo non può essere che la distruzione delle forze armate abissine e la conquista totale dell’Etiopia. L’impero non si fa altrimenti. Più sarà rapida la nostra azione e tanto minore sarà il rischio di complicazioni diplomatiche. More nipponico, non ci sarà nemmeno bisogno di dichiarare ufficialmente la guerra e, in ogni caso, si insisterà sul carattere difensivo delle operazioni. Nessuno ci solleverà delle difficoltà in Europa, se la condotta delle operazioni militari determinerà rapidamente il fatto compiuto. Basterà dichiarare all’Inghilterra e alla Francia che i loro interessi saranno riconosciuti. Imbarazzi da parte della Società delle Nazioni non ne verranno o saranno tali da non impedirci di condurre a fondo l’impresa.

È dal 1885 che questo problema esiste. L’Etiopia è l’ultimo lembo d’Africa che non ha padroni europei. Il nodo gordiano dei rapporti italo-abissini va aggrovigliandosi sempre più. Bisogna tagliarlo prima che sia troppo tardi!

Memorie storiche militari“, Stato Maggiore dell’Esercito

Quanto avete letto è solo un estratto delle tematiche analizzate, in maniera assai più strutturata, nel relativo approfondimento “La Guerra d’Etiopia [1 Parte] Un Posto al Sole”. Se non avete ancora soddisfatto la vostra sete di curiosità, questo è il momento giusto per godervi l’ottimo video realizzato dal canale YouTube Parabellum.

Buona visione!

Mirko Campochiari, Niccolò Meta

La Minerva


NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] L’intera operazione, volta ad assicurare due avamposti vicini al Canale di Suez, aveva ricevuto il beneplacito della Gran Bretagna.

[2] Dal 1922 al 1961, Palazzo Chigi è stato la sede del Ministero degli Esteri.

[3] Nel corso della campagna, Mussolini aveva vagliato la possibilità di sostituire Badoglio con Baistrocchi, vista la lentezza dei progressi sul campo. Una volta venuto a conoscenza dell’episodio, l’ufficiale piemontese si sarebbe prodigato per ostracizzare il rivale.

[4] Palazzo Esercito è stato la sede del Ministero della Guerra.

[5] Il Palazzo della Consulta è stato la sede del Ministero delle Colonie.

  • In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero, di Emanuele Ertola;
  • Il colonialismo italiano, di Giorgio Rochat;
  • Italia d’oltremare: storie dei territori italiani dalla conquista alla caduta, di Beltrami Vanni;
  • Gli italiani in Africa Orientale. I: dall’Unità alla marcia su Roma, di Angelo Del Boca;
  • Gli italiani in Africa Orientale. II: la conquista dell’Impero, di Angelo Del Boca;
  • Italiani, brava gente?, di Angelo Del Boca;
  • La guerra di Etiopia. L’ultima impresa del colonialismo, di Angelo Del Boca;
  • I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, di Angelo Del Boca;
  • Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, di Simone Belladonna;
  • The Italian Invasion of Abyssinia 1935-36, di David Nicolle e Raffaele Ruggeri (Inglese);
  • Collision of Empires: Italy’s Invasion of Ethiopia and its International Impact, di G. Bruce Strang, (Inglese);
  • Verso la Quarta Sponda la guerra Italiana per la Libia (1911-1912), di Bruce Vandervort;
  • Memorie storiche militari, Stato Maggiore dell’Esercito, 1979.

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