29 novembre 1890, Giappone

Nel giorno dell’insediamento della Dieta imperiale, l’organo rappresentativo del popolo giapponese, la Costituzione Meiji entra formalmente in vigore. Si tratta di un passaggio fondamentale per il consolidamento del regime, artefice in quegli anni di un impetuoso sviluppo che avrebbe catapultato il Paese nel Gotha delle grandi potenze.

In seguito all’abbattimento del bakufu[1] e alla riabilitazione della Corona sotto l’imperatore Mutsuhito (1852-1912), pietre angolari di una stagione convulsa nota come Rinnovamento Meiji[2], il Sol Levante si imbarcò in un ambizioso programma di modernizzazione che interessò ogni aspetto della vita nazionale. A differenza di quanto si potrebbe credere, tuttavia, l’edificazione di un moderno Stato di diritto non fu sempre il prodotto di un disegno strutturato e coerente: dopo una fase iniziale caratterizzata da uno studio approfondito del parlamentarismo britannico, la volontà di reprimere qualunque spinta eversiva condusse l’establishment a ideare un proprio modello dottrinale, invero caratterizzato da una forte impronta autoritaria e paternalistica.

È sotto questa luce che occorre quindi interpretare l’emanazione, nel marzo del 1868, di un manifesto programmatico con cui il sovrano (tennō) prospettava il varo di importanti misure, nello specifico la convocazione di un corpo legislativo e la diffusione capillare del sapere occidentale[3]. Nei mesi successivi, tali promesse furono ancora una volta ribadite nel “Documento sulla forma di Governo”, il Seitaisho, ai sensi del quale l’esercizio del potere veniva riposto nelle mani del Gran Consiglio (Dajōkan)[4]. Malgrado ciò, l’efficacia dell’istituto avrebbe continuato a risentire di una moltitudine di fattori, nello specifico dell’arbitrarietà dietro al conferimento delle cariche politiche e dell’estrema debolezza dell’Assemblea deliberativa[5].

Perché l’iter costituente subisse una drammatica accelerazione bisognò attendere il 1879, quando il fiorire dei movimenti popolari (minken) obbligò il tennō a richiedere l’intervento dei ministri sollecitandoli, attraverso un nuovo decreto, a elaborare dei progetti per una monarchia parlamentare. Nessuno di questi avrebbe però ottenuto un responso favorevole: la bozza redatta da Inoue Kaoru[6] (1836-1915) si scontrò infatti con l’opposizione di Itō Hirobumi[7] (1841-1909), uno degli uomini più potenti del regime, solerte nel giudicarla troppo fedele agli atti europei e perciò estranea al retaggio nazionale.

L’intensificarsi del confronto dialettico ebbe ricadute così profonde da minare le fondamenta stesse dell’esecutivo, diviso fra coloro che simpatizzavano con il liberalismo di Ōkuma Shigenobu[8] (1838-1922) e chi, al contrario, appoggiava Itō nel suo esperimento “trascendente”[9]. Nondimeno, ad assicurare il trionfo del secondo indirizzo sarebbero state le trame intessute dai conservatori per isolare Ōkuma, costretto a dimettersi nell’ottobre del 1881 con l’accusa di aver cospirato ai danni del Dajōkan.

Con la promulgazione della legge fondamentale, l’11 febbraio 1889, il lungo processo di State building avviato dagli oligarchi Meiji poté ritenersi ufficialmente concluso. A tal proposito, è bene puntualizzare quanto la solennità dell’episodio trasparisse in ogni minimo dettaglio, dalla scelta della data[10] a quella di presentare il documento come un gesto d’amore del monarca. Scrive la professoressa Caroli, nelle pagine del libro Storia del Giappone:

«Improntata precipuamente alla tradizione giuridica tedesca […] e, comunque, coerente con l’ideologia dominante e col sistema di potere istituito […] essa [la Costituzione, n.d.a] sanciva innanzitutto l’inviolabilità dell’imperatore, cui spettava il controllo supremo del potere politico e delle forze armate, assieme a un potere legislativo maggiore di quello attribuito al Parlamento. Il sovrano aveva oltretutto il diritto di nomina del Governo, i cui membri erano direttamente responsabili nei suoi confronti e non del Parlamento. Quest’ultimo era composto da una Camera dei Pari, riservata alla nobiltà, e da una dei Rappresentanti, eletta a suffragio ristretto e con poteri limitati. Restavano poi svincolati da ogni controllo altri organi, nonché il gruppo degli statisti anziani (genrō). Al popolo venivano riconosciuti diritti e doveri, pur assegnando alla legge il potere di limitarli».

Caroli.R., Gatti.F., Storia del Giappone, Roma-Bari, Editori Laterza, 2006, pag. 204.

Non deve quindi sorprendere se l’atmosfera politica del tempo fu dominata dall’instabilità: le prime due Diete, ree di non aver approvato il bilancio statale nella sua interezza, furono addirittura sciolte dopo pochi mesi di attività, mentre la terza venne eletta in un clima di intimidazioni senza eguali nella storia del Sol Levante. Il medesimo discorso andava applicato anche ai rapporti con le organizzazioni partitiche, la cui completa subordinazione alla causa nazionale sarebbe divenuta un fatto tangibile all’indomani della guerra con Pechino (1894-1895).

Niccolò Meta

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Fra il 1603 e il 1868, le sorti del Paese furono rette da uno shōgun, letteralmente “capo dell’esercito”: circa ¼ del territorio nazionale finì sotto il controllo diretto del bakufu, il governo militare imposto dalla dinastia dei Tokugawa, mentre il resto del Giappone rimase frammentato in almeno trecento feudi (han) guidati da signori locali (daimyō). In questa fase della storia nipponica, la figura dell’imperatore (tennō) svolse un ruolo del tutto simbolico, mentre ogni contatto col mondo esterno venne severamente proibito nel nome di una politica isolazionista (sakoku).

[2] Con l’aggravarsi della crisi politica che aveva investito lo shōgunato (bakumatsu), costretto suo malgrado a firmare una serie di “trattati ineguali” con l’Occidente, i quattro han di Chōshū, Hizen, Satsuma e Tosa maturarono la decisione di abbattere il bakufu. Il 3 gennaio 1868, la coalizione antigovernativa occupò quindi il Palazzo imperiale proclamando la restaurazione del potere regio, nonché l’abolizione dell’istituto shogunale e l’espropriazione delle terre appartenute ai Tokugawa.

[3] Si tratta del “Giuramento sui cinque articoli”, una dichiarazione di intenti ispirata alla “Costituzione di diciassette articoli” del 604 d.C.

[4] La struttura del Dajōkan, suddiviso in sette branche titolari delle funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria era articolata come segue: Assemblea deliberativa, Esecutivo, Shintoismo, Finanze, Guerra, Esteri e Giustizia.

[5] Simili debolezze offrirono all’oligarchia dirigente un ampio margine di manovra: già nel corso del 1869, la rudimentale tripartizione dei poteri venne accantonata in favore di un riassetto completo dell’istituto, presto affiancato nelle proprie mansioni da un Ufficio per gli Affari Shintoisti (Jingikan). Anche l’Assemblea deliberativa venne sciolta permanentemente, quasi a testimoniare la profonda confusione che regnava in quegli anni.

[6] Nato a Yuda il 16 gennaio 1836, il marchese Inoue Kaoru fu Vice Ministro delle Finanze e Ministro degli Affari Esteri durante l’età Meiji. Benché avesse scalato il cursus honorum in tempi piuttosto brevi, i fallimenti nella rinegoziazione dei “trattati ineguali e nella stesura della bozza costituzionale contribuirono, in ultima istanza, a sancirne il mesto declino. Morì a Shizuoka il 1 settembre 1915.

[7] Nato a Tsukari il 16 ottobre 1841, Itō Hirobumi è stato senza ombra di dubbio una delle figure più centrali dell’era Meiji. Governatore della prefettura di Hyogo a soli ventotto anni, fra il 1873 e il 1878 si rese protagonista di una rapida ascesa che lo portò a ricoprire gli incarichi di Ministro delle Infrastrutture e dell’Interno. Fu però l’assassinio del mentore Ōkubo Toshimichi (1830-1878) a proiettarlo fino ai vertici dello Stato: nominato Premier per ben quattro volte, Itō seppe sfruttare ogni opportunità per accrescere la propria egemonia, neutralizzando al tempo stesso l’influenza dei liberali. Sommo artefice dell’ordinamento politico entrato in vigore alla fine del secolo, nel 1901 si ritirò a vita privata a causa dei ripetuti contrasti con il generale Yamagata (1838-1922). Venne assassinato il 26 ottobre 1909 da un giovane nazionalista coreano.

[8] Come molti giovani di umili origini, Ōkuma Shigenobu aveva sostenuto attivamente la causa della Restaurazione, tanto da essere ricompensato con le cariche di Ministro per gli Affari Esteri (1868) e delle Finanze (1871). Malvisto dai conservatori per le simpatie liberali, nel 1881 fu costretto alle dimissioni per aver denunciato lo scandalo che aveva coinvolto il Dajōkan, colpevole di aver avallato la vendita fraudolenta di beni demaniali. L’anno successivo fondò uno dei primi partiti della storia nipponica, il Rikken Kaishintō (Partito della Riforma Costituzionale), attraverso il quale tentò di contrastare l’influenza di Itō. Scampato miracolosamente a un attentato terroristico, nel 1898 prese parte alla creazione del Kenseitō (Partito del Governo Costituzionale) ottenendo mandato per formare un governo di coalizione. Di nuovo Primo Ministro (1914), si ritirò a vita privata nel 1916. Morì il 10 gennaio 1922.

[9] Un governo “trascendente” non risponde del proprio operato di fronte al Parlamento, bensì nei confronti del Capo di Stato.

[10] Secondo la tradizione, il primo impero giapponese venne fondato l’11 febbraio 660 a.C da Jinmu, mitico sovrano della tradizione nipponica.

Un pensiero riguardo “29 novembre 1890, Giappone

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo:
search previous next tag category expand menu location phone mail time cart zoom edit close