Sono trascorsi ben sedici anni da quando, nell’ormai lontano novembre del 2003, debuttò sul grande schermo una pellicola destinata a riscuotere un ampio successo commerciale: si sta parlando de L’ultimo samurai, diretto dallo statunitense Edward Zwick e interpretato dagli ottimi Tom Cruise e Ken Watanabe.
La trama ruota attorno alla complessa vicenda di Nathan Algren, un ex capitano del 7° Reggimento di Cavalleria incaricato di addestrare le reclute dell’esercito imperiale, allora impegnato in una sanguinosa lotta contro i samurai ostili alla modernizzazione del Paese. Caduto loro prigioniero nel corso di una tanto prematura quanto disastrosa azione offensiva, il protagonista imparerà lentamente a conoscere i valori di quest’antica casta di guerrieri fino ad abbracciarne la causa, trovando al tempo stesso sollievo nell’amore della bellissima Taka (Koyuki Katō).
Al di là degli aspetti più intimamente legati al mondo della settima arte (sui quali non desidero soffermarmi vista la poca dimestichezza con la materia), è interessante notare che la cornice storica nella quale prendono forma le vicende dei personaggi non sia il frutto dell’immaginazione degli sceneggiatori, bensì un capitolo di cruciale importanza per lo sviluppo delle sorti del Sol Levante: la ribellione di Satsuma (1877).
LA CORNICE STORICA: L’ETÀ MEIJI
Tale episodio si inserisce all’interno dell’era Meiji (1868-1912), ossia di quel periodo della storia giapponese scandito dall’abbattimento del decrepito regime feudale (bakufu), dalla riabilitazione della Corona sotto l’imperatore (tennō) Mutsuhito e dall’avvio di un ambizioso programma di edificazione di uno Stato moderno e dinamico. L’evento determinante per questa svolta radicale ebbe luogo l’8 luglio 1853, quando le quattro navi da guerra comandate dal commodoro Matthew C. Perry si materializzarono al largo della baia di Tokyo per rompere l’isolamento nipponico. Erano infatti trascorsi due secoli da quando la dinastia dei Tokugawa, salita al potere nel 1603 al termine di una stagione di tumulti conosciuta come Epoca Sengoku, aveva ordinato la chiusura completa delle frontiere per neutralizzare le possibili minacce provenienti dall’esterno.

L’ingerenza degli USA nelle questioni dell’Asia orientale era quindi dettata dall’interesse per lo sfruttamento delle favolose ricchezze dell’impero cinese, cui si aggiungeva la necessità di garantirsi basi sicure per il rifornimento dei mercantili impegnati nella traversata del Pacifico. Conscio della propria inferiorità in caso di conflitto lo shōgunato, così chiamato in relazione al titolo assunto dai governanti in qualità di capi degli eserciti (shōgun), avrebbe sottoscritto una lunga lista di convenzioni commerciali che danneggiarono sensibilmente l’economia nazionale. Come se ciò non fosse bastato, alla crescente presenza straniera dopo secoli di isolazionismo si accompagnarono gli effetti destabilizzanti della concorrenza occidentale, preludio di una profonda crisi di legittimazione che avrebbe segnato gli ultimi anni di vita del regime.
Il momento cruciale per la disintegrazione del bakufu ebbe luogo nel marzo del 1866, quando i feudi di Chōshū, Satsuma e Tosa, tradizionalmente ostili al dispotismo dei Tokugawa e, di conseguenza, favorevoli al ripristino dell’autorità imperiale, si legarono in un’alleanza militare che di lì a breve avrebbe assunto un ruolo chiave nella transizione del Giappone verso la modernità. Fu l’ascesa al trono del venticinquenne Mutsuhito, nei primi mesi del 1867, a ufficializzare l’incrinatura dei rapporti fra la Corona e lo shōgun, dando modo alla coalizione di organizzare un autentico colpo di Stato proclamando la restaurazione dell’autorità del tennō (3 gennaio 1868). La volontà di recidere ogni legame col recente passato trasparve dalla decisione di far coincidere il nengo, ossia l’unità temporale in cui è divisa la storia giapponese, con il regno del sovrano, prassi che si è conservata intatta fino ai nostri giorni. L’età Meiji, letteralmente “del governo illuminato”, si caratterizzò infatti per l’adozione di una serie di riforme che permisero la concentrazione del potere nelle mani di una ristretta oligarchia, nonché la transizione accelerata del Sol Levante verso un’economia capitalistica.
Una volta scompaginata la resistenza delle forze ancora fedeli allo shōgunato (Guerra Boshin), il nuovo regime poté finalmente impegnarsi nel processo di trasformazione del Paese, cominciando dalla distruzione delle vestigia del dominio feudale e dal rafforzamento dell’apparato repressivo. Lo scioglimento degli eserciti personali al servizio degli ex signori locali, i daimyō, cui fece seguito l’introduzione della leva obbligatoria (gennaio 1873), ebbe però l’effetto di scatenare la violenta reazione dei guerrieri nipponici: privati da un giorno all’altro del monopolio del mestiere delle armi e degli antichi privilegi derivanti dal loro status, essi furono costretti ad accettare lavori umilianti che a stento consentivano di sopravvivere. Ad esacerbare ulteriormente gli animi contribuì la decisione di accantonare, nel settembre di quello stesso anno, il progetto d’invasione della penisola coreana (Seikanron): pensato come valvola di sfogo per i quasi due milioni di samurai colpiti dai provvedimenti governativi, il disegno dovette ben presto scontrarsi con il timore generalizzato di una rappresaglia dell’Occidente, nonché con la cronica debolezza del giovane Stato.
L’OPPOSIZIONE AL RINNOVAMENTO
A partire dall’anno successivo, il Giappone fu attraversato da una lunga serie di rivolte orchestrate da quei combattenti disincantati dalle scelte della Corona, le quali sarebbero culminate nella ribellione di Satsuma. Ciò che però distinse l’episodio dai precedenti fu la profondità degli ideali che ne animarono i protagonisti, vale a dire la convinzione secondo la quale l’imperatore dovesse esercitare il proprio ruolo senza la manipolazione degli oligarchi, unici responsabili delle iniziative impopolari prese nel decennio precedente, e che l’abbattimento dello shōgunato rappresentasse il preludio di un ritorno ai fasti del primo impero giapponese (VII-X secolo a.C).

Le ostilità si aprirono il 30 gennaio 1877 con i raid sugli arsenali militari di Kagoshima, ai quali fece seguito l’allestimento di un esercito per marciare alla volta di Tokyo. Alla testa dei ribelli si pose il brillante Saigō Takamori, un ex samurai che aveva abbandonato il proprio ruolo nell’esecutivo in risposta alla crisi del Seikanron, e sotto il suo comando le forze ultra-conservatrici impegnarono l’esercito regolare in campo aperto assediando la fortezza di Kumamoto (19 febbraio-12 aprile). Tuttavia, la pesante sconfitta patita nella battaglia di Tabaruzaka (4-12 marzo) arrestò definitivamente l’avanzata di Saigō verso la capitale, costringendo gli insorti a impegnarsi in una futile guerriglia contro avversari enormemente superiori a livello numerico e organizzativo.
L’atto finale di questa pagina della storia del Giappone si consumò il 24 settembre a Shiroyama, ultimo avamposto nelle mani dei reazionari dopo che l’offensiva del generale Yamagata ne aveva dissanguato gli effettivi. Circondati dai 30.000 soldati dell’esercito imperiale e soggetti al fuoco tambureggiante delle artiglierie, gli appena 500 guerrieri feudali tentarono un assalto frontale contro le linee nemiche, confidando nella propria abilità nel combattimento corpo a corpo. Gli ufficiali lealisti impallidirono quando videro le loro avanguardie indietreggiare per poi ritirarsi di fronte alla carica degli uomini di Satsuma, ma il rapporto di 60 a 1 a proprio vantaggio determinò ben presto l’esito dello scontro. Saigō non sopravvisse alla disfatta: ferito mortalmente da alcuni colpi sparati all’altezza dell’arteria femorale e dello stomaco, scelse infatti di onorare il codice dei samurai commettendo il suicidio rituale previsto dal Bushido, il libro sacro dei guerrieri.

L’esplosione della rivolta aveva palesato l’esistenza di gravi tensioni all’interno della società giapponese, ancora divisa tra i fautori di una rapida modernizzazione e i guardiani dei costumi secolari. Nondimeno, il desiderio di elevare il Sol Levante al rango di grande potenza avrebbe spinto l’oligarchia Meiji a edificare, nel corso del ventennio seguente, un apparato politico-ideologico di stampo paternalistico, capace di controllare il dissenso e compattare l’opinione pubblica attorno a un obiettivo comune: la prosperità dell’Impero.
E la figura di Nathan Algren che ruolo avrebbe avuto in tutto questo? È plausibile ipotizzare che gli sceneggiatori si siano liberamente ispirati al personaggio di Jules Brunet (1838-1911), capitano dell’esercito francese che combatté al fianco dell’esercito shogunale negli ultimi giorni della Repubblica di Ezo (1868-1869), prima che il potere imperiale venisse definitivamente restaurato.
Niccolò Meta
La Minerva
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- Pishel E.C., Storia dell’Asia Orientale 1850-1949, Carrocci Editore;
- De Palma D., Storia del Giappone contemporaneo, Carrocci Editore;
- Caroli.R., Gatti.F., Storia del Giappone, Roma-Bari, Editori Laterza.
L’ha ripubblicato su La Minerva.
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