20 agosto 1968, Cecoslovacchia

Le unità del Patto di Varsavia lanciano l’operazione “Danubio”, un’imponente manovra militare tesa a reprimere l’esperimento socio-politico inaugurato, agli inizi di gennaio, dalla dirigenza del Partito Comunista Cecoslovacco (KSČ).

Gli anni ’60 furono un periodo piuttosto turbulento per il regime di Antonín Novotný[1] (1904-1975): alla grave crisi economica che aveva investito il Paese, conseguenza dei limiti intrinseci nella pianificazione quinquennale, si era infatti accompagnata una crescita vertiginosa del debito pubblico. A ciò andavano sommate le croniche difficoltà del KSČ, al governo sin dal 1946, nel fronteggiare la preoccupante disaffezione palesata da larghi strati dell’intelligencija[2]. L’insieme di questi fattori avrebbe quindi spinto Leonid Brèžnev (1906-1982), Segretario Generale del PCUS, a incontrarsi con l’establishment praghese al fine di concordare una nuova linea d’azione (dicembre 1967).

Seppur contrario a un repentino cambio di leadership, il dirigente sovietico dovette nondimeno riconoscere l’estrema criticità del momento, avallando così la candidatura del giovane ed energico Alexander Dubček (1921-1992). Protagonista di un invidiabile cursus honorum, egli si era elevato a portavoce di un disegno alternativo che, sconfessando il rigido dogmatismo dei predecessori, sollecitava una profonda ristrutturazione del sistema vigente: solo l’accoglimento delle istanze riformiste avrebbe persuaso i cittadini ad abbracciare, nella più completa sincerità, i dettami del marxismo-leninismo, conferendogli in tal modo una parvenza meno asfittica e autoritaria. Questo ampio programma di liberalizzazione, costruito attorno al decentramento economico e alla concessione di maggiori prerogative individuali, costituì la motrice di una breve parentesi nota come “Primavera di Praga[3].

Interessante documentario dedicato alla repressione della “Primavera di Praga”. Queste pellicole sono state messe a disposizione dal Fondo Pelikán, appartenente all’Archivio della Camera dei deputati

Per sfortuna di Dubček e dei suoi collaboratori, il coro delle voci ostili a un simile progetto non avrebbe tardato a raccogliere proseliti: in occasione di un discorso tenuto di fronte ai colleghi del Partito Operaio Unificato Polacco, Władysław Gomułka[4] (1905-1982) stigmatizzò un’eventuale deriva “frazionista” perché fomentatrice di atteggiamenti controrivoluzionari. Era inoltre parere condiviso che la legittimazione della libertà di pensiero, di dibattito e di stampa avrebbe esposto la gioventù cecoslovacca agli influssi del pensiero occidentale, preludio di una sollevazione analoga a quella già verificatasi in Ungheria (ottobre 1956).

A seguito dell’inconcludenza dei vertici di Čierna nad Tisou (29 luglio-1 agosto 1968) e di Bratislava (3 agosto), le truppe del blocco orientale ricevettero l’autorizzazione a intervenire[5]: fra il 20 e il 21 agosto, 250.000 combattenti sostenuti da migliaia di carri armati, pezzi d’artiglieria e blindati varcarono il confine impadronendosi delle principali installazioni strategiche, prima fra tutte l’aeroporto internazionale di Ruzyně; azioni che si svolsero con sorprendente rapidità, visto l’ordine perentorio di Dubček di non opporre resistenza[6].

Malgrado l’esito favorevole dell’”operazione Danubio”, le forze di terra dovettero ben presto confrontarsi con schiere di civili la cui campagna di insubordinazione, destinata a protrarsi per alcune settimane[7], non escludeva il ricorso alla guerriglia urbana: oltre a oscurare i nomi delle vie e a rimuovere la segnaletica stradale, espedienti utili a disorientare gli occupanti, la popolazione avrebbe infatti aggredito le colonne nemiche con bottiglie Molotov e armi improvvisate. A complicare il quadro appena descritto contribuirono la paralisi delle attività produttive, risultato degli scioperi indetti dai lavoratori delle fabbriche, e la diffusione di opuscoli inneggianti alla lotta. Misure che, in ultima istanza, nulla poterono contro la schiacciante superiorità dei sovietici e dei loro alleati.

La vasta eco prodotta dall’episodio, condannato sia dai rivali del Cremlino che dagli attori politici ad esso allineati, avrebbe però costretto Brèžnev ad adottare un approccio meno intransigente. È sotto questa luce che bisogna interpretare la scelta di rimettere Dubček al timone del KSČ, invero ribaltata nell’aprile successivo con la nomina del filo-russo Gustáv Husák (1913-1991).

Niccolò Meta

La Minerva

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NOTE

[1] Antonín Novotný è stato Segretario del Partito Comunista Cecoslovacco tra il 1952 e il 1968, nonché Presidente della Repubblica tra il 1957 e il 1968. Era conosciuto per la stretta osservanza dell’ortodossia marxista.

[2] L’espressione intelligencija sta a indicare un gruppo definito di persone che esercitano un’attività intellettuale, sia essa scientifica, artistica o letteraria.

[3] Tali provvedimenti costituivano la pietra angolare del cosiddetto “Programma d’azione”, tentativo di tradurre in pratica i principi posti alla base del “socialismo dal volto umano”. Pur ribadendo il ruolo guida spettante al KSČ, la continuazione della lotta contro l’imperialismo occidentale e l’assoluta fedeltà a Mosca, esso esplicitava che

«[…] il Partito non vuole sostituire e non sostituirà le organizzazioni di massa; ma deve vigilare affinché le loro iniziative e le loro responsabilità politiche, nell’ottica dell’unità sociale, si rinnovino e si moltiplichino. Compito del Partito è quello di cercare il soddisfacimento degli interessi diversi, pur non mettendo in forse le prospettive della società intera; anzi, esso deve esser favorevole a questi interessi e crearne di nuovi, di carattere progressista».

[4] Władysław Gomułka è stato, tra il 1956 e il 1970, Primo Segretario del Partito Operaio Unificato Polacco. Caduto in disgrazia agli occhi di Stalin, venne riabilitato dopo la pubblicazione del “rapporto Chruščëv”.

[5] Nonostante le rassicurazioni sulla permanenza nel Patto di Varsavia e nel COMECON, le promesse di Dubček non incontrarono il favore di Brèžnev: ogni cambiamento in seno al blocco orientale sarebbe dovuto partire dal cuore dell’ortodossia marxista, Mosca, come risultato del proselitismo del Comitato Centrale; certamente non da uno Stato satellite incapace di controllare, dopo appena otto mesi, quello stesso processo che aveva contribuito a mettere in moto.

[6] È interessante constatare come, nelle ore immediatamente successive all’avvio delle operazioni, la Pravda avesse pubblicato una missiva sottoscritta da cinque membri del KSČ richiedenti l’assistenza del Cremlino. Per loro sfortuna, la lettera ebbe il solo effetto di alimentare la combattività della popolazione, trasformandola in ciò che le alte sfere del Politbjuro avevano sempre temuto: un’autentica forza belligerante mossa da sentimenti anti-sovietici.

[7] In seguito alla firma del Protocollo di Mosca (26 agosto 1968), la resistenza dei Cecoslovacchi andò affievolendosi in intensità e in coesione. Nei mesi successivi, la campagna di disubbidienza civile avrebbe infatti assunto un carattere meno strutturato, anche se non mancarono episodi eclatanti come il sacrificio degli studenti Jan Palach, Evžen Plocek e Jan Zajíc.

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