Boris Nikoláevič El’cin (1931-2007), primo Presidente della Federazione Russa, ordina lo scioglimento del Soviet Supremo e del Congresso dei Deputati del Popolo. È l’episodio cardine nell’ambito di una crisi costituzionale destinata, nelle settimane successive, a concludersi con l’intervento delle forze armate.
Tra le maggiori sfide che attendevano il regime emerso dal crollo dell’Unione Sovietica figuravano, per le implicazioni sul medio-lungo termine, il risanamento delle finanze prosciugate dall’esperienza della perestrojka[1], nonché la chiusura dei contenziosi lasciati insoluti dalla cosiddetta “parata delle sovranità”[2]. Per questi motivi, la squadra di governo scelta dall’ex Segretario di Mosca si sarebbe distinta fin da subito per la drasticità dei propri interventi, invero tesi a cancellare qualsiasi traccia dell’eredità comunista[3]. Basti pensare alla famigerata “terapia d’urto” voluta dal viceministro Egor Gaidar (1956-2009), necessaria a traghettare il Paese verso un sistema autenticamente capitalistico tramite la liberalizzazione dei prezzi, il taglio delle spese militari e la privatizzazione dei settori chiave dell’economia.
Simili disposizioni, già contemplate nell’ambizioso “Programma dei 500 giorni”[4], avrebbero tuttavia causato un notevole peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini, devastati dalla svalutazione dei loro risparmi e dall’irresistibile avanzata dell’iperinflazione. A tal proposito, è giusto puntualizzare che i soli beneficiari delle suddette politiche furono una ristretta cerchia di persone legate all’ex nomenklatura, in genere conosciuti attraverso l’epiteto di oligarchi: traendo pieno vantaggio dalla svendita del comparto energetico, essi seppero infatti appropriarsi di enormi ricchezze estendendo, in egual misura, la loro influenza sulla macchina statale.
Altro obiettivo irrinunciabile per l’establishment rimaneva la stabilizzazione monetaria mediante l’istituzione del nuovo rublo (RUR), nonché un controllo più capillare sui finanziamenti corrisposti al mondo dell’industria. Espedienti, questi, vanificati dalla massiccia fuga di capitali di cui si macchiarono i vertici stessi della cosa pubblica.
A partire dalla seconda metà del 1992, l’egemonia degli “occidentalisti radicali” sembrava volgere al tramonto di fronte ai proseliti raccolti dall’Unione civica, una forza centrista che non aveva lesinato critiche sulle iniziative intraprese a livello nazionale, né tantomeno sulla svolta filoatlantica inaugurata in politica estera. Come se ciò non fosse bastato, il ruolo del Presidente della Repubblica risentiva di quel dualismo dei poteri delineatosi fin dal ’91, prodotto della volontà di anteporre il risanamento economico alla riforma delle istituzioni. Quando El’cin giocò la carta del referendum per sondare l’indice dei consensi attorno alla propria linea, si trovò dunque a fronteggiare l’ostilità dei deputati che, in occasione del IX Congresso (26-29 marzo 1993), tentarono inutilmente di avviare le procedure per l’impeachment (28 marzo).
L’esistenza di un conflitto tra l’attività di governo e le prerogative parlamentari avrebbe spinto il Capo di Stato a riunire, nell’estate del 1993, un’assemblea speciale che redigesse il testo della nuova Costituzione, manifestando al contempo la volontà di anticipare la tornata elettorale. Il 21 settembre venne perciò firmato il decreto per lo scioglimento degli organi superiore e legislativo, disposizione alla quale quest’ultimo avrebbe reagito non solo dichiarando El’cin decaduto, ma designando al suo posto l’allora vicepresidente Aleksandr Ruckoj (1947-vivente). Messo davanti al rifiuto di evacuare la “Casa Bianca”, il leader del Cremlino avrebbe quindi approfittato degli assalti al municipio e alla stazione televisiva[5] per avallare, nella giornata del 4 ottobre, l’intervento dei reparti speciali che avevano già circondato l’edificio.
A distanza di ventotto anni, il numero delle vittime costituisce ancora argomento di dibattito: se si volesse prestare fede alle stime ufficiali, bisognerebbe accettare la cifra orientativa di 147 morti e 437 feriti. Un bilancio alquanto ottimistico, specie se si considera la portata degli scontri che avevano insanguinato, a partire dal 28 settembre, le vie della capitale.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] La formula perestroika indica quel programma di “ristrutturazione” promosso da Michail Gorbačëv a partire dal 1986, necessario al rilancio di un modello economico misto ispirato alla NEP leniniana e al socialismo di mercato cecoslovacco
[2] Con l’espressione “parata delle sovranità” si intende il processo per il quale le repubbliche costituenti, a cominciare da quelle baltiche, rivendicarono la loro autonomia dall’Unione Sovietica, mettendo in discussione la prevalenza della legislazione federale su quella nazionale. Un simile esempio sarebbe stato presto imitato dai movimenti indipendentisti del Caucaso, a cominciare da quello ceceno.
[3] All’inizio del proprio mandato, El’cin poteva contare sull’appoggio di larghi strati dell’opinione pubblica. Egli si era infatti distinto per il ruolo avuto nell’agosto del 1991, quando guidò l’opposizione contro il putsch ordito dal Comitato statale per lo stato d’emergenza.
[4] Il programma dei 500 giorni, così ribattezzato perché avrebbe dovuto garantire il passaggio a un’economia di mercato entro un paio d’anni, venne redatto da Grigorij Javlinskij e dall’accademico Stanislav Šatalin. Benché godesse del pieno sostegno di El’cin, fu accantonato nell’agosto del 1990 in favore di un progetto meno radicale noto come “Le direttive principali per lo sviluppo” (anch’esso mai approvato).
[5] Su istigazione di Ruckoj, i manifestanti filo-parlamentari occuparono l’ufficio del sindaco per poi dirigersi verso la torre televisiva di Ostankino, dove trovarono ad attenderli le unità lealiste. Nel frattempo, diversi gruppi paramilitari antigovernativi erano riusciti a infiltrarsi nel Soviet Supremo.
- Cigliano G., “La Russia contemporanea. Un profilo storico”, Carrocci Editore, 2013, Roma
- Valle R., “La metamorfosi della dittatura in Russia dall’età moderna all’età contemporanea”. Rubbettino Editore, 2012, Soveria Mannelli.
L’ha ripubblicato su La Minerva.
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