In seguito alla telefonata intercorsa fra il brigatista Valerio Morucci e il professor Francesco Tritto (1950-2005), alle ore 12:13, viene rinvenuto il corpo senza vita dell’Onorevole Aldo Moro (1916-1978). Sono gli istanti più bui e drammatici dei famigerati “anni di piombo”, contrassegnati da una degenerazione violenta del confronto politico-ideologico.
Il rifiuto dei socialisti di appoggiare il nuovo governo (Moro V), nel febbraio del 1976, non prefigurò solamente la conclusione anticipata della VI legislatura, ma l’epilogo dell’intera parabola del centrosinistra. Da quel momento in poi, la competizione elettorale si sarebbe svolta all’insegna del temuto “sorpasso” del PCI sulla Democrazia Cristiana, indebolita dal recente smacco referendario e dalle accuse di corruzione mosse contro i suoi esponenti[1].
Di fronte a una simile eventualità, la risposta dei poli moderati si concretizzò nel rispolvero dell’antica prassi del voto utile, come suggerito a malincuore dal giornalista e scrittore Indro Montanelli (1909-2001). Un espediente che permise alla D.C. di raccogliere il 38,7% delle preferenze, ma non immune da contraccolpi: l’indebolimento dei partiti laici, unito al contemporaneo disimpegno del PSI, avrebbe finito con l’impedire la formazione di un esecutivo stabile senza il favore dei comunisti, specialmente dopo che l’ipotesi di una seconda chiamata alle urne venne scartata per ragioni legate alla situazione interna.
Per superare l’immobilismo, si decise quindi di istituire un monocolore legittimato dall’astensione di tutte le altre forze partitiche (Andreotti III), conosciuto attraverso la celebre formula di “governo della non sfiducia”. Nelle intenzioni di Enrico Berlinguer (1922-1984), tale esperienza avrebbe dovuto costituire il primo passo verso un graduale reinserimento del PCI alla guida del Paese, salvo poi naufragare davanti all’opposizione di chi aveva visto nell’intesa uno strumento per risolvere il rebus della governabilità.
In ultima istanza, l’evento cardine per l’archiviazione della strategia solidale fu l’uccisione del presidente Aldo Moro, figura chiave nel rilancio del dialogo con l’estrema sinistra, a opera delle Brigate Rosse. Quest’organizzazione di matrice terroristica, fondata nel 1970 su impulso dei militanti Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini, aveva visto nel “compromesso storico”[2] il tradimento della causa del proletariato, costretto a sostenere il peso di una politica di austerità senza alcun margine di ripresa.
Nel giorno fissato per la presentazione dell’esecutivo alla Camere (Andreotti IV), il 16 marzo 1978, l’auto che trasportava l’Onorevole venne assalita in via Mario Fani da un commando che neutralizzò i cinque uomini della scorta. A perdere la vita furono i carabinieri Oreste Leonardi (1926-1978) e Domenico Ricci (1934-1978), assieme ai tre agenti della Polizia Francesco Zizzi (1948-1978), Giulio Rivera (1954-1978) e Raffaele Iozzino (1953-1978).
La celerità che caratterizzò l’episodio, unita alla presunta scomparsa di documenti in possesso del deputato, hanno contribuito ad alimentare le ipotesi più eterogenee sul coinvolgimento di frange deviate dei servizi segreti, nonché di esponenti collusi con la loggia massonica P2. Certo è che, a distanza di oltre quarant’anni, non cessa di stupire l’accortezza con cui i cospiratori curarono ogni minimo particolare: si pensi alla scelta di travestirsi da piloti dell’Alitalia per non destare sospetti e assicurare il riconoscimento reciproco; all’utilizzo di una vettura munita di targa diplomatica per sorvegliare gli spostamenti della colonna; all’estrema precisione nell’impiego delle armi e nella triangolazione del tiro.
Un discorso a sé riguarda il covo usato dai terroristi come centrale operativa, al numero 96 di Via Gradoli. Già in data 18 marzo, gli inquirenti avevano infatti ricevuto segnalazioni da parte di una donna che affermava di aver udito, in diverse ore del dì e della notte, strani rumori provenire dall’appartamento. Nondimeno, la pattuglia inviata per il sopralluogo avrebbe deciso di non procedere con la perquisizione, affermando che gli inquilini non erano momentaneamente in casa: solo in seguito si scoprì che nella palazzina vi erano ventiquattro alloggi di società immobiliari collegate al S.I.S.De, il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica.[3]
Altrettanto anomali furono gli eventi consumatisi il 4 aprile, quando l’accademico Romano Prodi confidò al ministro Andreatta (1928-2007) di aver scoperto il nome del luogo dove l’Onorevole era tenuto prigioniero: Gradoli. Secondo il diretto interessato, la notizia sarebbe trapelata al termine di una seduta spiritica condotta nella casa del collega Alberto Clò, anche se indicazioni più attendibili parlano di una soffiata sopraggiunta da ambienti vicini alle Brigate Rosse. Il vero enigma alla base della vicenda resta, tuttavia, l’ostinazione nel limitare le ricerche all’omonimo paesino del viterbese, ignorando così l’indiscrezione raccolta appena due settimane prima.
Perché il nascondiglio delle B.R. fosse violato bisognò attendere la giornata del 18 aprile, quando i Vigili del Fuoco intervennero sul posto per una perdita d’acqua proveniente dall’abitazione del fantomatico “Mario Borghi”, pseudonimo dietro al quale si nascondeva l’ideatore del sequestro di Via Fani: Mario Moretti. Del Presidente della Democrazia Cristiana, però, nessuna traccia[4].
Volgendo uno sguardo al panorama istituzionale, è bene puntualizzare come il periodo successivo al 16 marzo sia stato scandito dal confronto tra i fautori della “linea della fermezza”, guidata dal triumvirato Andreotti-Berlinguer-La Malfa, e lo schieramento dei possibilisti, egemonizzato dal segretario del PSI Bettino Craxi (1934-2000). In quei 55 giorni segnati dalla trepida attesa e dallo sconforto, Moro scrisse peraltro 86 lettere indirizzate alla famiglia, ai principali esponenti del suo partito[5], ai quotidiani nazionali e al pontefice Paolo VI (1897-1978) per ottenere, invano, un maggior impegno nelle trattative.
Con la scoperta del cadavere, rinvenuto nel portabagagli di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, la parabola compromissoria sarebbe entrata in una spirale discendente. Cruciale in tal senso si dimostrò l’intenzione, avvertita soprattutto nell’ala destra della D.C., di interrompere qualunque esperimento collaborativo dopo il varo della manovra economica, arrivando a minimizzare i segnali giunti dai referenda sull’abrogazione della legge Reale e sul finanziamento pubblico ai partiti (entrambi respinti con percentuali nette).
Ancora oggi, il ruolo dello Stato italiano nel “caso Moro” rimane uno dei più grandi interrogativi della storia repubblicana; uno scenario le cui implicazioni stentano a trovare qualsiasi logica, se non alla luce dell’evoluzione del percorso politico nostrano. Una sola certezza, tuttavia, emerge dal quadro appena descritto: la volontà di attori locali e internazionali di scongiurare un eventuale ingresso dei comunisti nell’area di governo, in quanto suscettibile di mettere a repentaglio la permanenza dell’Italia nel sistema atlantico. Questa prospettiva rappresentò l’argomento centrale dell’incontro svoltosi a Washington (settembre 1974) fra l’Onorevole e Henry Kissinger, Segretario di Stato durante le amministrazioni Nixon e Ford, il quale rese nota l’opposizione degli USA alla strategia di apertura perseguita da Roma.[6]
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Si sta parlando, nell’ordine: del referendum sul divorzio; del “caso dei petroli”, nell’ambito del quale si scoprì un giro di tangenti versate dall’ENEL per ottenere una legislazione sfavorevole all’energia atomica; dello scandalo Lockheed.
[2] Le radici del compromesso storico possono essere rinvenute nella serie di articoli pubblicati sulla rivista “Rinascita” a commento del golpe cileno (11 settembre 1973). Tale episodio aveva infatti dimostrato l’impossibilità, per i movimenti di sinistra, di esercitare un ruolo autonomo alla guida dell’esecutivo anche su investitura popolare. Da qui l’ipotesi di una collaborazione con la D.C. per aggirare l’ostacolo della “conventio ad excludendum”.
[3] “Moro: da via Fani a via Caetani, mappa di un sequestro”, Ansa,it, 15 marzo 2018.
[4] È quasi accertato che Aldo Moro fosse tenuto prigioniero in una cella situata in Via Montalcini 8, distante una ventina di chilometri da Via Gradoli.
[5] Emblematica risulta essere quella rivolta a Benigno Zaccagnini, definito:
«il più fragile Segretario che abbia mai avuto la D.C.»
[6] “Andreotti: ‘Quando Moro fu aggredito da Kissinger’”, Ansa.it, 06 maggio 2020.
S. Colarizi, “Storia politica della Repubblica. 1943-2006: Partiti, movimenti e istituzioni”, Editori Laterza, Bari, 2007.
Brutto ricordo non solo per ritrovamento, ma perchè è avvenuto proprio dinanzi ad una Biblioteca di Storia che durante alcuni esami e e durante la preparazione della tesi è stata la mia seconda casa, nel lontano 1974/75/76
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