Andando a passeggio per il ghetto di Roma, forse il solo al mondo senza mura, e nelle botteghe dove da sposino mi andavo a comprare i pedalini (i calzini) e le mutande, ora ci trovi la cucina kosher.
Quando passavi accanto al Portico d’Ottavia, in un qualsiasi giorno di maggio (quando si circolava…), era tutto un fiorire di hostarie, di tavoli all’aperto e, intorno a mezzogiorno, cominciavi a sentire l’odore che saliva dalle cucine dove si preparavano i mangiarini della cucina giudìa (come diciamo noi a Roma senza malizia): la concia de zucchine, i carciofi alla giudìa, il tortino di alici, lo stracotto… .
Non ti immagini nemmeno cosa successe lì nello stesso posto, quel maledetto giorno di ottobre del ’43, quel sedici. Un sabato. Shabbat.
In un’Italia estenuata da una guerra mal condotta, sfiduciata da un 8 settembre di resa inetta e da una fuga ignobile, i nazisti avevano preso il controllo di Roma con arroganza e ferocia.
Ovviamente l’Endlösung der Judenfrage, la soluzione finale della questione ebraica, doveva essere applicata con la stessa ferocia che in Polonia e in altre parti del Reich dei millenni.
Il 24 settembre 1943 Himmler, in un telegramma segreto e strettamente riservato per il colonnello Kappler, disponeva che:
Tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell’impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa.[1]
Kappler era l’Obersturmbannführer delle SS, poi responsabile per Roma del servizio segreto delle SS, il Sicherheitsdienst (SD), al cui comando di Berlino si erano avvicendati prima Heydrich[2] e dopo Kaltenbrunner[3] . Si trattava dunque di un ufficiale dotato di un potere enorme, responsabile del furto delle riserve auree italiane e, in seguito, di vari eccidi fra cui quello delle Fosse Ardeatine. Amministrativamente dipendeva dall’SS-Obergruppenführer Karl Wolff, Comandante in Capo delle S.S. per l’Italia e membro del Persönlicher Stab RfSS, l’ufficio stampa personale di Himmler.
Egli si mosse di fronte alle intimazioni di quest’ultimo e, come sempre hanno saputo fare le S.S., mise dinanzi agli ebrei una scusa accattivante con cui illuderli e far loro abbassare la guardia.
Approfittò della sudditanza della forze di Pubblica Sicurezza italiana invitando Ugo Foà, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, e Dante Almansi, Presidente delle Comunità Israelitiche italiane, a recarsi nel pomeriggio presso il comando dell’SD per comunicazioni.[4]
Usando un copione ben consolidato dalle S.S., dapprincipio si curò di affascinare i suoi interlocutori, salvo poi annichilirli con richieste dure e minacce inequivocabili. Con un cambio di comportamento mirato a terrorizzarli, l’ufficiale fece capire che i nazisti consideravano gli ebrei alla stregua di nemici giurati, e che quindi dovevano attendersi solo provvedimenti spietati e definitivi. Questo a meno che la comunità romana non avesse messo a disposizione cinquanta chilogrammi di oro. Né un grammo di più, né un grammo di meno. Oltretutto il metallo doveva essere consegnato entro trentasei ore, pena l’avvio del rastrellamento e della deportazione di almeno duecento semiti. Termine ultimo: il 29 settembre.
Alcune testimonianze riferiscono che Kappler abbia affermato che l’oro poteva essere sostituito da dollari o sterline, ma non da lire italiane (Berlino aveva il controllo della Zecca di Roma, quindi poteva stamparne a volontà). Personalmente nutro forti dubbi su una simile versione.
Innanzitutto perché, secondo quanto riportato dal Centro di Documentazione Ebraico di Vienna e nell’opera di Simon Wiesenthal, “Gli assassini sono fra noi”, le S.S. erano già entrate in possesso di matrici e carta moneta da cui stampare sterline. Quando avevano occupato le isole britanniche del Canale, infatti, ne avevano saccheggiate le Banche fra cui la filiale della Royal Bank of Scotland, uno degli istituti creditizi che prima della 2^ Guerra Mondiale poteva “battere moneta” per il Tesoro Inglese[5]. Allo stesso modo, sulla scorta della successiva corrispondenza tra Kappler e i suoi superiori, si capisce come ciò che volevano assieme alla deportazione degli ebrei romani fosse proprio l’oro.
I due Presidenti, dopo aver cercato invano di ridurre la richiesta, si congedarono.
La mattina dopo iniziò la raccolta all’interno della Grande Sinagoga di Roma, ricorrendo al tipico sistema di passaparola che gli ebrei avevano imparato ad adottare dall’epoca dell’approvazione delle leggi razziali. Siccome non si poteva contare su un aiuto della Polizia di Stato, ormai asservita allo strapotere tedesco, si cercò di non perdere tempo e di raccogliere il metallo il più velocemente possibile. Chi non aveva oggetti importanti portava catenelle, braccialetti e quant’altro. Non si prese mai in considerazione l’ipotesi di non ottemperare alle richieste. Molti Gentili[6] di buon cuore, venuti a sapere dell’imposizione, contribuirono con oggetti propri.
Nel pomeriggio anche la Santa Sede, informata del ricatto di Kappler, comunicò in via ufficiosa che avrebbe autorizzato con grande generosità (….) un prestito, il quale le sarebbe stato rimborsato non appena la Comunità ebraica fosse stata in grado di farlo[7]: svariati lingotti sino al raggiungimento dei 50 chilogrammi richiesti dalla polizia tedesca.
Ciò non fu necessario.
Poco prima della scadenza delle trentasei ore, in uno slancio di generosità dei romani, vennero raccolti ottanta chilogrammi del prezioso metallo e 2.021.540 lire. I trenta chilogrammi avanzati furono nascosti e, alla fine della guerra, furono versati per finanziare la nascita dello Stato di Israele.
Sul sito www.16ottobre1943.it si può inoltre leggere che:
Per ragioni di sicurezza, il Presidente della Comunità Israelitica chiese alla polizia italiana una scorta durante il trasporto al comando della polizia tedesca. Fu così che il brigadiere Oreste Vincenti e la guardia Vincenzo Piccolo si unirono a Foà e Almansi, nonché a Marco Limentani, Giuseppe Gay, Settimio Gori e Angelo Anticoli in qualità di uomini di fatica. Chiuse il gruppo il Commissario Cappa, in incognito, pregato da Foà di presenziare all’atto del versamento perché ne fosse testimone.
Ai cinquanta chili ne vennero aggiunti altri trecento grammi, nel caso fossero sorte contestazioni.
I due presidenti furono così ricevuti nella sede delle S.S. di Via Tasso 155: a tal proposito, è bene sottolineare come un simile indirizzo sia ancora oggi odiato dai cittadini romani, in quanto indice di torture e infamia. Si trattava infatti del luogo dove le S.S. portavano i sospettati antifascismo e i partigiani arrestati, sottoponendoli nel processo a torture atroci, malnutrizione e ad esecuzioni sommarie. Era il “regno” di Kappler, di Priebke, di Reder e di Karl Schütz; quest’ultimo il solo degli ufficiali delle S.S., boia in Via Tasso 155, ad averla fatta franca.[8]
In sostituzione di Kappler trovarono l’Hauptsturmführer Karl Schütz che, con maniere arroganti, diede disposizioni per la pesatura dell’oro, effettuata con una bilancia della portata di appena cinque chili. Ultimato l’intero procedimento, con l’esclusione di circa duecento grammi rimasti come residuo, l’Hauptsturmführer dichiarò che le pesate erano state solamente nove e che, pertanto, il peso complessivo raggiunto fosse di quarantacinque chilogrammi.
Foà e Almansi sostennero con veemenza che le pesate erano state dieci ma, per evitare equivoci, chiesero che fossero rinnovate. A questo punto iniziò una discussione (pericolosa per i due rappresentanti della Comunità ebraica, dal momento che Schütz era uno dei macellai di Via Tasso e, in seguito, fu uno degli esecutori materiali[9] della strage delle Fosse Ardeatine) al termine della quale si riuscì ad ottenere una nuova pesatura che confermò i cinquanta chilogrammi. Rischiando ulteriormente venne chiesto il rilascio di una ricevuta che, in maniera piuttosto prevedibile, non venne concessa.
I cinquanta chilogrammi d’oro vennero messi in una cassa e alcuni giorni dopo, a mezzo di un ufficiale delle S.S. che rientrava a Berlino, furono inviati da Kappler al capo dell’Ufficio Centrale Per La Sicurezza Del Reich, il generale Ernst Kaltenbrunner.
E qui sorge un dubbio: perché il tutto era stato gestito direttamente da Kaltenbrunner, e non si era passati per il Comando dell’RSHA di Verona, competente per territorio? La particolare forma di azione presa dal Kappler fu ancora più evidente dalla lettera di accompagnamento che suggeriva, invece della deportazione, l’utilizzo degli ebrei romani come mano d’opera per lavoro obbligatorio. Conoscendo il modus operandi di Kappler dai suoi atti successivi, ciò implica che questi reputasse spreco di risorse il rastrellare e deportare di un numero risibile (per i canoni delle S.S.) di ebrei, del cui numero i tedeschi avevano un’esatta cognizione grazie alla collaborazione dei fascisti. Inoltre, un rastrellamento feroce in Roma, “cortile del Papa”, poteva creare notevoli problemi di carattere politico.
La risposta del generale Ernst Kaltenbrunner, così come riferita dal sito www.16ottobre1943.it[10] implica qualcos’altro dietro l’insistenza nazista nel deportare la comunità ebraica romana, forse rappresaglia verso il tradimento italiano di Cassibile e la fuga del Re verso Brindisi.
A guerra finita, il bottino fu trovato intatto nello chalet austriaco di Kaltenbrunner, ad Altaussee, assieme ad altre cinquanta casse contenenti oro in monete e oggetti[11]. Dove sia finito oggi, non si sa.
Gli ebrei, come quasi sempre avevano incoscientemente fatto in tutta Europa in quegli anni, si fidarono dei nazisti e abbassarono la guardia. Ma già il giorno successivo alla consegna dell’oro, il 29 settembre, diversi militari delle S.S. (tra i quali alcuni esperti di lingua ebraica, probabilmente inviati costì da Adolf Eichmann che era a capo del Zentralstelle für jüdische Auswanderung[12]), perquisirono i locali del Tempio Maggiore impadronendosi di documenti, manufatti religiosi di valore e del denaro rinvenuto in una cassaforte.
Lo stesso trattamento subirono la Biblioteca del Collegio Rabbinico e quella del Collegio Ebraico, da cui furono rubati manoscritti, incunaboli e materiale sacro di notevole valore artistico.
Nemmeno un intervento presso il Ministero della Cultura riuscì ad impedire la depredazione, e quasi tutti i volumi e altro materiale sacro della preziosissima biblioteca della Sinagoga vennero caricati su due carri ferroviari per essere spediti a Monaco.
Nei giorni successivi, il ghetto fu spogliato di tutte le ricchezze evidenti. Il 13 ottobre era il termine ultimo che i tedeschi si erano posti per il piano di liquidazione del quartiere romano.
Il 16 avviarono le deportazioni.
Quel che mi ha sempre sorpreso è stata la facilità con cui i nazisti siano riusciti a carpire la buona fede degli ebrei, riuscendo a tranquillizzarne le paure ottenendone una dolente accettazione del loro fato. Raramente, infatti, gli ebrei rastrellati, ghettizzati o imprigionati nel corso della Seconda Guerra Mondiale hanno posto resistenza alle deportazioni. Anche in questo caso, gli ebrei romani convinti di aver pagato il fio con ben cinquanta chilogrammi d’oro (cifra veramente enorme per la piccola comunità) furono presi di sorpresa dal rastrellamento.
A ogni nucleo famigliare sarebbe stato dato un foglio dattiloscritto con indicati gli oggetti che potevano portare con sé. E 20 minuti per prepararsi.
La notte fra il 15 ed il 16 ottobre pochi avevano dormito nel Ghetto. I tedeschi avevano sparato raffiche in aria per tutta la notte allo scopo di spaventare la gente
Il 16 era il Simchat Torah, l’ultimo giorno di Sukot (סוכות o תוֹכּסֻ entrambi sukot), la festa delle Capanne, e durante il 15 si era a lungo dibattuto fra il rabbino del Tempio Eugenio Zolli[13] e il presidente Foà se la Sinagoga dovesse restare aperta. Zolli la volle tenere chiusa, affermando che non fossero quelli tempi per riunire fedeli, laddove Foà lo tacciava di vigliaccheria e allarmismo. Ad ogni modo, lo studioso cercò rifugio presso amici, estranei alla comunità. Era stato proprio Zolli a contattare il Vaticano per chiedere un aiuto nella raccolta dell’oro, avendo un rapporto talmente particolare con papa Pio XII da portarlo all’abiura del Giudaismo a favore del Cattolicesimo, nel 1945.
Il 16 ottobre 1943, la sua casa in via San Bartolomeo dei Vaccinari 19 fu la prima che le S.S. perquisirono, sfondando la porta di ingresso. Non trovarono nessuno.
In ogni caso, quel mattino molti ebrei nel Ghetto erano svegli sia a causa degli spari notturni, sia perché era stata annunciata una distribuzione di sigarette alla tabaccheria dell’Isola Tiberina, l’isola sul Tevere di fronte alla Sinagoga. E le sigarette erano merce rara, utile non solo per chi fumava, ma anche come bene di scambio alla borsa nera.
Erano le 5:30 quando 365 tedeschi fra membri delle S.S., della Wermacht e della Ordnungpolizei al comando dell’Hauptsturmführer Dannecker, insieme a 20 agenti di polizia della Questura, iniziarono in contemporanea la caccia agli ebrei di Roma circondando il Ghetto con posti di blocco su Via del Tempio, Piazza Mattei, Piazza Costaguti, Via del Portico d’Ottavia e Via Sant’Angelo in Pescheria. Quest’ultima fu la meno presidiata, in quanto i pochi che riuscirono a scappare poterono farlo solo da lì.
Le SS si muovevano con l’ausilio degli elenchi dei nominativi forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno, avendo diviso la città in 26 zone per effettuare un rastrellamento efficiente. Fatto, questo, che merita una menzione a parte: l’Hauptsturmführer Theodor Dannecker, collaboratore di Eichmann operativo a Roma dal 6 ottobre, era stato posto al comando di un’unità speciale autonoma comprendente 44 fra ufficiali, sottufficiali e soldati delle S.S. Usando Via Tasso come base, costoro avevano preparato l’elenco degli ebrei romani con l’aiuto della Polizia Italiana, nella persona del commissario e capo dell’Ufficio per la Razza della Regia Questura Gennaro Cappa. Per l’operazione avrebbero impiegato tanto le copie del censimento degli ebrei del 1938, quanto l’elenco dei contribuenti alla consegna dell’oro. Inoltre, per evitare che nella notte fra il 15 ed il 16 i poliziotti italiani potessero avvisare del rastrellamento, furono consegnati in caserma sotto il controllo della Wermacht. I quasi 400 uomini impiegati non furono però sufficienti per rastrellare tutti gli ebrei: in seguito, Kappler si lamentò coi suoi superiori di come la scarsa collaborazione dei romani avesse impedito ai suoi uomini un lavoro che, in altre nazioni, era stato minuziosamente eseguito. Oltre a questo, molti storici hanno sospettato che non si volesse compiere azioni troppo eclatanti a Roma. Infatti, caso più unico che raro per le azioni delle S.S., non fu scattata alcuna foto del rastrellamento, oppure non vennero mai diffuse.
L’antico quartiere ebraico fu usato come base di tutta l’operazione, ma anche quartieri limitrofi come Testaccio, Monteverde e Trastevere furono rastrellati a fondo, e pochi scamparono spesso rifugiandosi e nascondendosi da amici.
Le S.S. entrarono di casa in casa sfondando porte, spesso arrestando intere famiglie sorprese ancora nel sonno. Nella maggior parte dei casi diedero ai malcapitati 20 minuti di tempo per raccogliere le loro cose (v. copia).

Tutte le persone prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo poco più in là del Portico d’Ottavia, attorno ai resti del Teatro di Marcello. Gli antichi monumenti assistettero muti all’ennesima violenza dell’uomo verso l’uomo.
Fu un’azione capillare, perfettamente organizzata e condotta come solo i nazisti sapevano fare. Uomini, donne, bambini, neonati, malati, nessuno escluso. Alla fine di quello Shabbat, 1.024 ebrei romani furono rastrellati e caricati sui camion.
Gli automezzi pieni di sofferente umanità furono scaricati su via delle Longara accanto al carcere di Regina Coeli, nel cortile del Collegio Militare, dove vennero ammassati fra gli altri 207 bambini, che divennero nella notte 208. Lì furono perquisiti e registrati dagli uomini di Theodor Dannecker, che da quando erano arrivati a Roma vi si erano acquartierati.
Parole di Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta alla deportazione:
“Per la prima volta, Roma era testimone di un’operazione di massa così violenta. Tra coloro che assistettero sgomenti ci fu una donna che, piangendo, si mise a pregare e ripeteva sommessamente: «Povera carne innocente”.
La mattina di lunedì 18 ottobre, quei 1.024 disperati furono caricati sui camion e trasferiti alla Stazione Tiburtina per venire ammassati su vagoni piombati. Direzione: Auschwitz.
Arrivarono il 22 ottobre 1943. Quasi 800 furono immediatamente mandati alle camere a gas.
Ne tornarono indietro sedici. Quindici uomini ed una donna.
«Il tribunale di JHWH siede in permanenza, quaggiù in terra e lassù in cielo»
Aldo Ciappa
La Minerva
NOTE E BIBLIOGRAFIA:
Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino, 1993
http://www.16ottobre1943.it
Lezioni sul Novecento, Pietro Scoppola
La resistenza silenziosa. Leggi razziali e occupazione nazista nella memoria degli ebrei di Roma, a cura di Marco Impagliazzo
Anna Foà, Portico d’Ottavia 13, una casa nel Ghetto di Roma nel lungo inverno del 1943
Indro Montanelli & Mario Cervi, L’Italia della guerra civile
Marcello Pezzetti, 16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma
Rosetta Loy, La parola ebreo
Channel Islands Occupation Society (Jersey), CIOS Jersey Bell, William M. (2002), Guernsey occupata, ma mai conquistata
Il denaro, giugno (2011) Aspetti della guerra , Channel Island Publishing
Simon Wiesenthal, Gli Assassini sono fra noi – Robert Edsel, Monuments Men
[1] Cfr. Wikipedia & www.16ottobre1943.it]
[2] Reynard Heydrich fu in seguito nominato Protettore della Boemia e Moravia, venendo ucciso da partigiani cecoslovacchi nel 1942.
[3] Ernst Kaltenbrunner fu condannato a morte dal Tribunale Alleato di Norimberga, venendo impiccato nel 1946.
[4] Villa Wolkonsky si trova nella zona di Porta Maggiore, ed è oggi residenza dell’Ambasciatore Inglese in Italia.
[5] Cfr. Il denaro, giugno (2011) Aspetti della guerra, Channel Island Publishing],
[6] Gentili: da GOY, il non Ebreo, Plurale Goyim
[7] Nota dell’autore: non sono stato capace di scoprire se la Santa Sede avesse stabilito anche un certo tasso d’interesse.
[8] Kappler, Priebke e Reder furono condannati all’ergastolo, con il solo Priebke ad aver scontato al 90% la pena in Italia: Reder venne graziato, mentre Kappler evase con enorme scandalo.
[9] Per “materiali” intendo uno di coloro che sparò più volte
[10] Nel brano è possibile leggere quanto segue: “È precisamente l’estirpazione immediata e completa degli ebrei in Italia nell’interesse speciale della situazione politica attuale e della sicurezza generale in Italia!”
[11] Nella stessa località, in una miniera di sale, i Monuments Men USA recuperarono fra le altre opere la Madonna con Bambino di Bruges di Michelangelo (unica opera del Buonarroti che sia fuori dall’Italia), e la Pala d’Altare di Gand (di Jan Van Eyck) – cfr. libro Monuments Men di Robert Edsel.
[12] L’Ufficio centrale per l’emigrazione ebraica era parte della Reichssicherheitshauptamt o RSHA, la Direzione generale per la Sicurezza del Reich.
[13] Eugenio Zolli ha rivestito la carica di Rabbino Capo fin dal 1940.