Tu quoque, Brute, fili mi?

Idi di marzo, 710 ab Urbe condita, volgarmente note come il 15 marzo 44 a.C

Gaio Giulio Cesare (101/100 a.C-44 a.C), condottiero militare e dictator perpetuo della Repubblica romana, è stato il preclaro discendente della stirpe Iulia: fondata dal leggendario Proculo Giulio, secondo la tradizione vantava tra i suoi illustri antenati lo stesso Enea, sfuggito assieme all’intera famiglia dalle rovine di Ilio.

Egli fu colui che ridiede lustro a un’antica gens patricia, conseguendo fama imperitura in qualità di avvocato e di uomo politico. Del resto aveva scalato con piglio deciso il cursus honorum[1], venendo sempre designato primo degli eletti “in suo anno”. Inoltre, avendo vissuto in uno dei quartieri più popolari dell’Urbe, la Suburra, godeva del rispetto della plebe malgrado fosse di origini aristocratiche.

In una res publica sconquassata dalla riforma sillana e dalla lotta fra Optimates e Populares, preda delle bande di facinorosi guidate da Clodio e da Marone, Cesare non mancò di emergere nelle vesti di pacificatore, promuovendo la nascita del famoso Triunvirato: si trattava di un “gentlemen’s agreement” mediante cui le personalità più influenti dell’epoca, nello specifico Gneo Pompeo Magno (106 a.C-48 a.C) e Marco Licinio Crasso (115/114 a.C-53 a.C), si accordarono con lui per gestire la cosa pubblica e circoscrivere i disordini.

In forza di questo aveva ottenuto il proconsolato delle Gallie, ufficio che lo rese l’unico comandante legionario in prossimità di Roma, dacché nessun esercito in armi poteva attraversare il Rubicone. Tra il 58 e il 50 a.C riuscì quindi nell’impresa di sottomettere la Gallia Comata, pacificando una volta per tutte le tribù che vi abitavano.

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur.

L’intera Gallia è divisa in tre parti, una delle quali abitata dai Belgi, l’altra dagli Aquitani, la terza da quelli che si chiamano Celti nella loro lingua, Galli nella nostra   

De Bello Gallico 1-1.

La morte di Crasso nella battaglia di Carre (53 a.C) aveva però finito col spingere Pompeo tra le braccia degli Optimates, solerti nell’approntare le dovute contromisure per esautorare il minaccioso rivale. Un simile episodio giocò un ruolo chiave nell’alimentare una nuova e altrettanto sanguinosa guerra civile, la quale si sarebbe conclusa solamente nel 45 a.C con la sconfitta dei conservatori.

All’apparenza padrone indiscusso dell’agone politico, egli perdonò i sopravvissuti che avevano militato tra le fila nemiche per prodigarsi, grazie alla nomina a dictator perpetuo, nella restaurazione della macchina statale: ciò alimentò i sospetti di chi temeva volesse ripristinare la monarchia, nonostante avesse rifiutato in più di un’occasione qualsivoglia potere reale. Oltretutto, diverse figure chiamate a rimpolpare le schiere del Senato non vedevano di buon occhio le sue iniziative, vuoi per invidia verso coloro che ne erano favoriti, vuoi perché intenzionate a restaurare quel mos maiorum[2] che le sue deliberazioni, spesso oculate, stavano sovvertendo. Fu così che un’ottantina di congiurati maturarono il proposito di ucciderlo.

L’aspetto forse più triste della vicenda è che alcuni di loro avevano goduto di un trattamento privilegiato come Gaio Trebonio (90 a.C-43 a.C), Tillio Cimbro (85 a.C-42 a.C) e Decimo Bruto (85/80 a.C-43 a.C), a lungo suoi luogotenenti nei conflitti in Gallia e contro i pompeiani. Altri ancora si erano lasciati coinvolgere perché sinceramente convinti di ripristinare la Repubblica dei giorni migliori (si pensi al famigerato Marco Giunio Bruto, figlio di Servilia Cepione, potente domina e storica fiamma del “tiranno”). I restanti furono mossi da sentimenti di pura gelosia come Lucio Ponzio Aquila (…-43 a.C), tribuno della plebe e amante ufficiale della summenzionata Servilia (100 a.C circa-post 42 a.C). Insomma, una congerie di personaggi assortiti per estrazione politica e sociale, difficilmente in grado di mantenere il segreto visto il numero cospicuo.

Appurata la volontà di assassinarlo, si procedette alla convocazione di una seduta da svolgersi nella Curia di Pompeo. Fu proprio in quella circostanza che si scelsero le Idi di marzo, dal momento che tre giorni dopo il condottiero avrebbe raggiunto Brindisi per imbarcarsi alla volta dell’Asia, teatro di una nuova campagna contro i Parti.

C’è però un interrogativo che stenta a trovare una valida risposta: possibile che Cesare, supremo dittatore, uomo esperto e intelligente, avvezzo ai tradimenti dei suoi concittadini dopo aver trascorso anni a difenderli o a combatterli nel Foro, non avesse avuto alcun sentore di questa cospirazione? Dopotutto quella dell’assassinio era una prassi piuttosto comune per sbarazzarsi degli avversari, come aveva testimoniato la drammatica scomparsa dei fratelli Gracchi. È plausibile che ne avesse avuto il presentimento ma, pur senza sottovalutarla, ritenesse che non si sarebbe giunti a un omicidio.

Secondo la tradizione, molti furono gli episodi che preannunciarono l’avvenimento: il gran rumore provocato dalle armi di Marte custodite nella Regia; i sogni premonitori di Calpurnia (75 a.C- post 44 a.C), sua moglie, che lo aveva visto ricoperto di sangue. La sera prima, in una cena conviviale a casa dell’amico Lepido, ebbe a dire parlando della morte:

«Ad ogni altra ne preferisco una rapida e improvvisa».

La mattina del 15 marzo, Calpurnia e altri membri dell’entourage lo supplicarono di non andare. Artemidoro di Cnido (I secolo a.C-post 44 a.C), celebre filosofo e indovino, gli consegnò un libello nel quale denunciava la trama sovversiva. Non se ne curò nemmeno, lui, che era conosciuto per saper leggere, scrivere, camminare e colloquiare allo stesso tempo!

Cesare, da uomo intelligente e pragmatico qual era, era ormai consapevole di aver raggiunto l’apice della propria gloria, e che da quel momento in poi nulla avrebbe eguagliato quanto aveva ottenuto.

Spesso uomini di pari livello si erano ritirati all’apogeo della loro carriera, consapevoli che la prosecuzione degli uffici non avrebbe migliorato ciò che erano: Silla (138 a.C-78 a.C) ne costituiva il fulgido esempio.

Difficilmente l’autore del “veni, vidi, vici” avrebbe potuto recuperare le aquile di Crasso, rischiando invece un’umiliante sconfitta a opera dei Persiani. Era, come diremmo noi oggi, prigioniero del proprio personaggio, e forse aveva compreso che, una volta toccato l’acme, non esistesse altra via che il declino. Allora, se il Fato aveva deciso che dovesse morire per mano di coloro che aveva perdonato e gratificato, così sarebbe stato! Se vi fossero riusciti, la sua fama sarebbe stata eterna, imperitura.

Egli non credeva in una vita ultraterrena, né tantomeno nella metempsicosi[3]: la morte sarebbe stata la fine di Cesare, e Cesare doveva rimanere eterno. Quell’assassinio sarebbe stato il suggello della sua grandezza.

Non è quindi da escludersi che, di fronte all’esito infausto dell’ultimo sacrificio compiuto nelle vesti di pontefice, avesse accettato l’ineluttabilità del proprio destino, affrontandolo con quel coraggio che lo caratterizzava sin da quando era un giovane soldato[4].

C’è un dettaglio che non bisogna trascurare: tra gli storiografi che ne hanno documentato l’uccisione, Svetonio (69 d.C circa-post 122 d.C) riporta che nell’istante in cui i congiurati ebbero il sopravvento, egli si coprì la testa e le gambe con la toga. Un patrizio romano, infatti, non poteva morire in maniera indecorosa.

Ottimo documentario tratto dal canale YouTube Capitolivm, a cura dello storico e saggista Luciano Canfora.

Aldo Ciappa, con la collaborazione di Germana Orabona

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Il cursus honorum è la successione ordinata delle diverse magistrature o delle diverse cariche, politiche, municipali, o collegiali, rivestite da personaggi dell’età romana (Fonte: Treccani).

[2] Il Mos maiorum (letteralmente «usanza, costume degli antenati») rappresenta il nucleo della morale tradizionale della civiltà romana.

[3] La metempsicosi è una credenza propria di alcune dottrine religiose secondo cui, dopo la morte, l’anima trasmigra da un corpo all’altro, fin quando non si sia completamente affrancata dalla materia (Fonte: Treccani).

[4] Lo stesso Svetonio aveva agitato il sospetto secondo cui Cesare non volesse più vivere, e che per questo motivo non si preoccupasse della propria sicurezza. Piuttosto indicativi sono i seguenti passaggi:

Alcuni credono che, facendo eccessivo affidamento sull’ultimo decreto del Senato e sul giuramento dei senatori, avesse congedato le guardie spagnole che lo scortavano armate di gladio.

Secondo altri, al contrario, preferiva cadere vittima una volta per sempre delle insidie che lo minacciavano da ogni parte, piuttosto che doversi guardare continuamente.

Dicono che fosse solito ripetere che non tanto a lui, quanto allo Stato doveva importare la sua salvezza; per quanto lo riguardava, già da tempo aveva conseguito molta potenza e molta gloria; se gli fosse capitato qualcosa, la Repubblica non sarebbe certo stata tranquilla, e in ben più tristi condizioni avrebbe subito un’altra guerra civile.

  • Plutarco, Vite Parallele (Cesare e Romolo);
  • Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare;
  • Enciclopedia Treccani;
  • Strauss B., La morte di Cesare: L’assassinio più famoso della storia;
  • Velleio Patercolo, Historiae Romanae;
  • Cristoforo Gorno, Io sono Cesare. Memorie di un giocatore d’azzardo.

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