Dio dovrà chiedermi perdono

Il Jewish Historical Documentation Centre di Vienna e il Simon Wiesenthal (SWC) di Los Angeles hanno calcolato che i nazisti installarono, nell’Europa da loro occupata, non meno di 33 campi[1] di concentramento e di sterminio principali[2].

Il primo, che ancora operava alla vigilia della sconfitta, fu quello di Dachau[3].

Con la solita efficienza tedesca, l’organizzazione funzionava come una macchina: a fronte di un certo numero di ebrei che entravano, una parte veniva assegnata ai lavori forzati; l’altra veniva eliminata; lo stesso numero di corpi spariva nel nulla o sottoterra.

Un meccanismo congegnato nei minimi particolari, teso espressamente al genocidio. Al momento della resa da parte dell’ammiraglio Karl Dönitz (1891-1980) il regime nazista, pel tramite della sua branca armata più fedele, le SS, aveva eliminato quasi 17 milioni di persone. 17 milioni di individui uccisi non dalla guerra, o come risultato di più azioni belliche, ma liquidati perché non rispondenti alle esigenze razziali del nazionalsocialismo.

Sono cifre che si stenta a comprendere, tanto per la vastità quanto per la motivazione. E su questo i nazisti, fini psicologi, hanno sempre contato per operare indisturbati: la mente umana, infatti, si terrorizza davanti a 100.000 morti, ma 17 milioni non erano numeri facili da smaltire e razionalizzare nemmeno all’epoca!

Parliamo di 196.000 Rom, 250.000 disabili, quasi 8 milioni di non-ariani, slavi (di cui 3 milioni di prigionieri russi), 1.5 milioni di dissidenti politici (fra cui 30.000 italiani) e 50.000 militari italiani internati. Infine, naturalmente, oltre 6 milioni di semiti.

I film (Schindler’s List per tutti) e i libri sulla Shoah ci raccontano di come non ci si limitasse a gassare gli ebrei, ma di quanto ogni passo, ogni momento della vita nel campo di sterminio fosse delegato a terminare la vita di qualche deportato, senza alcuna soluzione di continuità. Una macchina pressoché perfetta, talmente ben oliata da risultare di difficile accettazione per una mentalità come quella post-1945 che, non rifornita da media, televisioni, telefonini e simili gadget, aveva basato il proprio sapere sui cinegiornali e sulla carta stampata (spesso di regime).

Il meccanismo dello sterminio, da quando fu fatto partire, non si inceppò mai.

Gennaio 1942: la Conferenza di Wannsee, presieduta da Reinhard Heydrich (1904-1942) e assistita da Adolf Eichmann (1906-1962), aveva dato il via all’eliminazione di 11 milioni di ebrei e, nel frattempo, erano stati sperimentati diversi metodi d’uccisione (alcuni funestati da inconvenienti tecnici). Alla fine, però, il sistema del Zyklon B fu il meno disastroso, e la sequenza treni con deportati – camere a gas – forni risultò quella prescelta. Quindi, già a partire dal 1943, erano stati approntati i progetti per l’annientamento degli zingari europei, dei polacchi, dei russi e di molti altri ancora. Eh già! I nazisti non avevano tempo da perdere per far spazio nel loro “paradiso” della suprema razza ariana.

Un simile apparato doveva marciare implacabilmente, e nessuno degli ingranaggi, fosse esso meccanico o umano, poteva guastarsi. Pertanto necessitava di tecnici che riparassero i forni crematori quando questi si rompevano; di esecutori che svuotassero le camere a gas; di criminali talmente incalliti da risultare abituati a eliminare altre persone senza la minima esitazione.

Lo Schloss (castello) Hartheim, località austriaca nei pressi di Linz, fu una delle “università” del genocidio. Lì i nazisti plasmarono la loro élite di assassini organizzandola come una scuola di medicina dove, invece di salvare vite, veniva impartito un rigido addestramento mirato a distruggerle con la maggior efficienza possibile.

La morte dei prigionieri veniva studiata, analizzata clinicamente, fotografata in maniera minuziosa e, alla fine, perfezionata. In alcuni impianti come Treblinka, fotografi specializzati delle SS-Totenkopfverbände catturavano ogni istante delle vittime mentre venivano uccise, spedendo i negativi ad Hartheim perché fossero studiati.

Nello stesso castello furono sperimentati anche diversi tipi di gas per ricercare quello più adatto alle uccisioni in massa: cronometri alla mano, i dottori esaminavano da uno spioncino le cavie morenti, registrandone le agonie al decimo di secondo. Le riprese cinematografiche venivano in seguito analizzate al rallentatore. Nulla, infatti, era lasciato al caso.

Gli “studenti” medesimi, che in un primo momento si limitavano ad assistere, eseguivano in prima persona, mentre le camere a gas venivano testate assieme ai forni perché lavorassero con il minimo impaccio possibile. Se uno dei due si guastava, era spesso da Hartheim che partivano i tecnici per ripararli.

L’intera struttura, i sistemi meccanici e medici, il programma di studi e la preparazione del personale erano coperti dal massimo segreto sotto il controllo di un GauInspekteur, un alto funzionario personalmente e direttamente responsabile nei confronti della Cancelleria del Reich.

Forse nessuno riuscirà mai a scoprire quante persone abbiano perso la vita ad Hartheim, torturate per “insegnare” a uccidere senza battere ciglio.

Nel 1947, durante il processo del campo di Dachau, dei testimoni dichiararono che nei sotterranei dello Schloss venivano “sacrificate all’apprendimento” non meno di 40 cavie umane al giorno, sovente scelte fra testimoni di Geova, persone malate mentalmente e omosessuali. Quindi oltre 30.000 in tre anni. Quando poi nella vicina Mauthausen erano oberati, molte vittime venivano spedite ad Hartheim per testare le strutture in caso di stress.

Gli allievi venivano sollecitati a essere indifferenti, a guardare uccidere e a uccidere con indifferenza.

Anche la raccolta dei beni che i gassati erano riusciti a nascondere era organizzata allo Schloss Hartheim. Coloro che venivano destinati alle camere a gas, inconsci di dove stessero andando, ingoiavano pietre, anelli e collane nella speranza di recuperarli in seguito. Una volta che il Zyklon B era stato risucchiato, un Sonderkommando di esperti in preziosi era il primo ad aprire le porte stagne: con dei ferri a forma di gancio smuovevano i cadaveri incastrati fra di loro e, tra il fetore degli escrementi, del vomito e il sentore acre che una paura sconfinata ti fa uscire dai pori, li tiravano via

Successivamente arrivavano quelli che, con delle pinze da dentista, asportavano i denti d’oro, trascinando sotto l’attenta guardia delle SS i poveri corpi verso i carrelli per i forni. Spesso venivano sostituiti perché non resistevano allo stress, conseguenza degli orrori ai quali assistevano e di cui erano parte attiva.

I gioielli venivano poi lavati e valutati; le pietre, invece, venivano rimosse dalle montature che venivano fuse per essere usate nell’industria.

A quel punto l’efficienza di Hartheim entrava in azione: un SS Obersturmführer (Tenente delle SS) di nome Bruno Bruckner[4] funse, per l’intero periodo bellico, da corriere tra i campi di sterminio, lo Schloss e Berlino per raccogliere preziosi da consegnare ovunque il Gau-Inspekteur decidesse.

L’intera organizzazione destinata a fare dell’Europa un luogo abitato “dalla pura razza ariana” operò, per quanto atroce possa sembrare, in perfetta sincronia con il progetto per cui era stata studiata. Se non raggiunse gli obiettivi prefissati fu perché “la soluzione finale” era inserita in un contesto di guerra totale che la Germania, per i modi e le azioni con cui era stata condotta, non poteva assolutamente vincere.

Coloro che la programmarono, prepararono e gestirono avevano addirittura messo in conto la possibilità di un fallimento attivando il piano “B”: ODESSA [Organisation Der SS-Angehörigen – Organizzazione dei Membri delle SS], il sistema ideale con cui far espatriare dall’Europa i membri delle Schutzstaffel facendoli riparare in Sud America, passando per una sequenza di case sicure, seminari tedeschi e conventi germanici.

Ma chi pianificò la soluzione finale? Chi ne organizzò ogni singola azione? Chi fece muovere i convogli che, dai punti più estremi del Reich, portavano ai campi di sterminio milioni di deportati? Chi ideò ODESSA, sistema di fuga indissolubilmente legato alla soluzione finale?

Una buona parte di tali responsabilità va imputata a Himmler (1900-1945) e a Heydrich, i quali indicarono le linee guida e l’epilogo del progetto. Ma chi oliò la macchina, perfezionandola fino a renderla attiva ed efficiente è stato, a mio giudizio, l’SS- Obersturmbannführer responsabile di una sezione del RSHA, ossia l’Ufficio Centrale per La Sicurezza del Reich: l’esperto della questione ebraica Adolf Eichmann. Colui che Simon Wiesenthal (1908-2005) definì:

dieses elende schwein Eichmann, das die Juden kommandierte” [quello spaventoso porco di Eichmann che comandava gli ebrei].

L’unico pezzo grosso delle SS rapito dal Mossad, portato in Israele, giudicato colpevole e impiccato. A ragion veduta, dico io.

Ho scoperto il massacro degli ebrei dalle parole di un amico di famiglia. Avevo 14 anni, ed ero molto curioso di storia già allora. Era ovvio che, con la mia passione per questa disciplina, incappassi in quella che oggigiorno viene comunemente ricordata come Shoah”.

Essa è stata una tragedia senza paragoni, malgrado i precedenti storici dell’est europeo siano stati un susseguirsi di pogrom e di persecuzioni, non solo per quel che è successo, ma per come è avvenuto.

Un’epoca di tregenda, quella alimentata dal nazismo, anche per il contorno di perseguitati e massacrati assieme agli “Juden”: zingari, polacchi, militari russi, preti cattolici, disabili, malati di mente, testimoni di Geova, omosessuali e oppositori del regime hitleriano. Massacro, questo, compiuto con un’efficienza ancor più mostruosa perché spietatamente organizzata.

A volte il solo pensarci mi basta per provare un senso di spaurimento. Erano esseri viventi, respiravano e parlavano, ma NON ragionavano come noi. E hanno organizzato, scientemente e volutamente, un massacro costruito a catena di montaggio, come un’automobile: roba da sentire la pelle arricciarsi, i capelli drizzarsi in capo… e un’enorme tristezza pervaderti il corpo.

«Il tribunale di JHWH siede in permanenza, quaggiù in terra e lassù in cielo»

 

Cherem (anatema) dei rabbini ebrei contro Isabella d’Aragona che, con l’editto di Granada (1492), sancì l’espulsione dei Sefarditi dalla Spagna

Aldo Ciappa

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La frase citata nel titolo (Wenn es einen Gott gibt muß er mich um Verzeihung bitten) viene canonicamente attribuita a un prigioniero di Mauthausen. Nel presente documentario, al minuto 20:48, potrete trovarne conferma.
https://www.youtube.com/watch?t=19m20s&v=8r50t7148sA&feature=youtu.be&has_verified=1

[1] Ciascuna di queste strutture principali era suddivisa in unità minori, per un totale di almeno 900 “sotto-campi”.

[2] La liquidazione degli ebrei avvenne in due modalità distinte: il “trattamento finale” (uccisione all’interno dei campi di Chełmno, Bełżec, Sobibór, Treblinka, Majdanek e Auschwitz-Birkenau); il cosiddetto “sterminio attraverso il lavoro”.

[3] Cfr. “Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945″, p. 37. – Dachau servì da modello a tutti i campi di concentramento, di lavoro forzato e di sterminio nazisti eretti successivamente.

[4] Ciò è quanto emerso dalle indagini condotte da Simon Wiesenthal, noto con il celebre appellativo di “cacciatore di nazisti”.

  • Primo Levi, Se questo è un uomo, La Tregua
  • L.S. Dawidowicz, The War Against the Jews, 1938-1945
  • E. Benbassa, Esther, R. Aaron, Storia degli ebrei sefarditi. Da Toledo a Salonicco
  • Simon Wiesenthal Gli assassini sono fra noi
  • Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme
  • Alessandra Chiappano, I lager nazisti : guida storico – didattica
  • https://digilander.libero.it/francescocoluccio/aned/bertazzoni.htm
  • Holocaust Encyclopedia, United States Holocaust Memorial Museum
  • https://www.wiesenthal.com/
  • Sorton, Il campo di concentramento di Dachau dal 1933 al 1945

 

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