Il coraggio dietro la benda: la storia di Marie Colvin

Ogni mattina, quando accendiamo i nostri cellulari o televisori, veniamo sommersi da una mole impressionante di notizie, la maggior parte delle quali provenienti da diverse aree del globo.

Il più delle volte sono informazioni a carattere politico, economico e sociale, una panoramica resa possibile grazie alle migliaia di giornalisti che, lontani da casa, svolgono il proprio lavoro in prima persona.

C’è però un altro tipo di reportage che completa quanto appena descritto: quello proveniente dai teatri di guerra, dove inviate e inviati documentano l’andamento dei conflitti rischiando, e a volte perdendo, la loro vita.

Quella che affronteremo oggi è la storia di Marie Colvin, una reporter di cui si è scritto molto e alla quale è stato dedicato anche un film: “A Private War”. Se avete già avuto modo di vederlo, saprete dunque che non si tratta di una vicenda a lieto fine.

Marie Colvin nacque a New York il 12 gennaio 1956, frutto dell’amore tra un ex Marine divenuto insegnante e una consulente scolastica. Dopo essersi diplomata presso la scuola superiore di Oyster Bay (1974), ella avrebbe continuato il proprio percorso di studi scegliendo antropologia, scienza che si occupa di studiare l’essere umano in tutti i suoi aspetti. Nondimeno, prima di iscriversi a Yale trascorse un intero anno in Brasile nell’ambito di un progetto di scambio studentesco, esperienza che le diede modo di frequentare alcune lezioni organizzate dal premio Pulitzer John Hersey[1].

Il mondo del giornalismo non tardò ad appassionare Marie, tanto da spingerla a redigere svariati articoli già all’università dove, peraltro, si era fatta notare per il proprio carattere focoso. Una volta laureatasi avrebbe quindi intrapreso la propria gavetta, attività che l’avrebbe portata a ricoprire incarichi di rilievo e a sbarcare, nel 1985, alla corte del Sunday Times.

Forse fu in quell’esatto momento che si trovò di fronte al famigerato bivio che ci fa chiedere “cosa succederebbe se…?”. L’anno seguente lasciò infatti la propria posizione per diventare una corrispondente dal Medio Oriente, ruolo che si sarebbe ampliato fino ad includere la branca degli affari esteri (1995) e che le sarebbe valso un piccolo primato: nel 1986, ella fu la prima a intervistare il dittatore libico Mu’hammar Gheddafi dopo l’operazione El Dorado Canyon, un bombardamento aereo condotto dagli Stati Uniti in risposta a un attentato terroristico nel quale, presumibilmente, era coinvolto lo stesso governo di Tripoli.

Nella decade successiva, la Colvin si sarebbe recata nei luoghi più “caldi” del mondo come la Sierra Leone, la Serbia e la Cecenia, giungendo a Timor Est nel 1999. Qui fu protagonista di un atto eroico contribuendo a salvare le vite di almeno 1.500 civili, fornendo testimonianze sul violento assedio orchestrato dalle truppe indonesiane contro un compound delle Nazioni Unite[2].

Ormai quarantacinquenne, Marie era divenuta una veterana dell’informazione: aveva prodotto documentari e vinto riconoscimenti di indubbio prestigio, ma la sua vocazione come reporter era rimasta immutata. Proprio nel 2001, mentre si trovava nello Sri Lanka per seguirne la violentissima guerra civile, venne ferita in un attacco sferrato dalle forze regolari dove perse l’occhio sinistro[3]. Quando riprese conoscenza, rivelò che i suoi aggressori sapevano perfettamente a chi stessero sparando.

Malgrado ciò, ella riuscì a completare un articolo nel quale riferiva gli orrori perpetrati nell’ex colonia britannica, soffermandosi sui crimini commessi dall’esercito contro i ribelli Tamil e la stessa popolazione. Una simile attività venne condotta in spregio del pericolo, dal momento che solo dopo quest’episodio fu permesso alla stampa di seguire il conflitto nelle aree controllate dai ribelli, cosa assolutamente impensabile fino a qualche giorno prima.

Nel 2011 ebbe di nuovo modo di incontrare Gheddafi, stavolta nella cornice delle primavere arabe, ma la sua parabola stava volgendo rapidamente al termine: l’anno successivo venne inviata in Siria per documentare le atrocità perpetrate dal regime di Bashar al-Assad, colpevole non solo di una scarsa tolleranza nei confronti della stampa “non autorizzata”, ma di indicibili violenze ai danni di civili e non[4]

Nella giornata del 22 febbraio, meno di 24 ore dopo l’ultimo collegamento con diverse emittenti televisive, la giornalista e il fotoreporter Rémi Ochlik vennero uccisi in una tremenda esplosione che, stando all’autopsia condotta dalle autorità di Damasco, sarebbe stata causata da un ordigno esplosivo artigianale. Una tesi smentita da un collega di Marie che, sopravvissuto alla deflagrazione, parlò di alcuni colpi d’artiglieria indirizzati sull’edificio grazie al segnale emesso dai telefoni satellitari.

Come spesso accadde, la verità sulla morte della Colvin resterà avvolta nel mistero. Nondimeno, è bene sottolineare che il giudice Amy Berman Jackson abbia attribuito, in una sentenza del 2019, la responsabilità dell’omicidio al governo siriano, reo di aver voluto mettere a tacere un personaggio fin troppo scomodo.

Gianluca Marzari, Niccolò Meta

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Nato a Tientsin nel 1911, John Hersey è considerato uno dei primissimi esponenti del New Journalism, ove gli artifici stilistici comunemente associati alla narrativa vengono applicati al reportage giornalistico.

[2] Marie rimase con gli assediati fino al momento della loro evacuazione.

[3] La perdita dell’occhio provocò in Marie il famigerato disturbo da stress post-traumatico (PTSD), ma ciò non le impedì di proseguire la propria attività indossando l’iconica benda nera.

[4] La Colvin parlò di attacchi precisi e spietati, descrivendo la guerra civile siriana come: “il peggior conflitto che avesse mai visto”.

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