Alla vigilia della tempesta economica: il tramonto del benessere tra emergenze sanitarie e finanziarie

È sotto gli occhi di tutti che la crisi economica all’orizzonte (per alcuni già in atto) è molto diversa da quelle precedenti. Per moltissimi economisti, le cause della Grande Depressione del ’29 e della Grande Recessione del 2008 erano endogene al sistema economico, quindi dovute all’incepparsi dei vari ingranaggi come lo scoppio di una bolla immobiliare piuttosto che una crisi finanziaria, mentre quelle odierna sembra apparentemente causata da fattori esogeni, quali le misure di contenimento del Covid-19.  La differenza tra queste due categorie non è solo un tecnicismo, e l’economista Nicholas Kaldor ne spiega le ragioni:

Le crisi economiche prodotte da fattori interni (endogeni) sono di intensità maggiore, quindi più importanti, di medio-lungo periodo e con un recupero rispetto ai valori pre-crisi più lungo. Inoltre intaccano la stessa struttura produttiva. Al contrario, le crisi economiche provocate da fattori esterni (esogeni) hanno una durata più breve, sono concentrate nel tempo e hanno un recupero più rapido rispetto ai valori pre-crisi[1].

Roger Farmer, Macroeconomia, McGraw-Hill, p. 286.

La Migrant Mother di Dorothea Lange, con al centro Florence Leona Christie Thompson, 32 anni, madre di sette figli. E’ diventata uno dei simboli di povertà della Grande Depressione (Fonte: Wikipedia).

Le frasi soprariportate celano un modesto ottimismo sulla situazione attuale, e non pochi economisti hanno affermato che, con le dovute politiche economiche espansive, è possibile limitare i danni. D’altra parte ci sono anche storici dell’economia che affermano l’esatto contrario. La recessione attuale potrebbe essere la più grande della storia a causa sia di un mondo sempre più globalizzato, sia perché ha avuto origine da due cause concomitanti: una endogena e l’altra esogena.

La prima sono le misure di contenimento del Coronavirus: il blocco prolungato di molte attività economiche comporta sia uno shock dal lato della domanda (attraverso una riduzione dei consumi dei soggetti economici dovuto all’impossibilità di realizzare acquisti fuori casa, oltre che alla mancanza o a una riduzione di reddito industriale o familiare), che dal lato dell’offerta, in quanto si interrompono le catene di fornitura che la globalizzazione ha distribuito in tutto il mondo. È da precisare che il blocco dei voli, la chiusura degli esercizi commerciali e delle attività industriali rappresentano una perdita di utile secca: la domanda persa non verrà in alcun modo interamente recuperata, nei mesi a venire. Ciò provoca, in molte imprese, una crisi di liquidità: a fronte delle spese indifferibili (tra cui quelle per gli adempimenti retributivi, fiscali e contributivi) e degli oneri di indebitamento, le mancate entrate prodotte dalla compressione dei fatturati potrebbero mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa di intere filiere produttive. Inoltre, si aggiunge il pericolo che concorrenti esteri possano approfittare delle attuali difficoltà della manifattura italiana per sottrarre quote di mercato[2].

Non solo: ciò porta molti istituti a optare per una riduzione del credito a famiglie e a imprese, dovuta al timore di non vedere rimborsati i loro prestiti presenti e futuri. A ciò si aggiunge la perdita di valore dei titoli di Stato (che rappresentano una grossa fetta delle attività bancarie), perché l’attuale situazione in cui versano molti PIIGS[3] spaventa gli investitori. Ciò causa l’aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato nazionali, aumentando di conseguenza il famigerato spread, ossia la differenza tra il tasso di rendimento del titolo decennale di un Paese (nel caso dell’Italia, il Btp) rispetto a quello tedesco decennale, il “Bund”.

Ciò si traduce in un maggior debito pubblico.

Tutti questi fattori disincentivano le imprese dal realizzare nuovi progetti produttivi, visto che la stessa prosecuzione dell’attività corrente è compromessa o a forte rischio. La vendita di azioni delle multinazionali quotate in borsa è diventata obbligatoria per tutti quegli azionisti che temevano, a ragione, che il prezzo delle proprie azioni scendesse: la vendita in massa di queste “porzioni di proprietà” ha fatto crollare ulteriormente il prezzo dei titoli, generando un panico da vendita nelle Borse mondiali.

La seconda causa risiede nella condizione economica internazionale pre-esistente al Coronavirus, quali i rallentamenti dell’economia cinese, tedesca e giapponese (che rappresenta una buona fetta di domanda di capitali e beni a livello mondiale, nonché sede di molti imprese); i timori delle guerre commerciali internazionali (si pensi a quella condotta da Trump contro la Cina e, in parte, contro l’UE) che hanno scoraggiato gli investimenti internazionali; i fondi pensione e gli hedge funds che avevano tassi di vulnerabilità più elevati rispetto a quelli che si registravano alla vigilia del crollo della Lehman Brothers; la precarietà economica di molti Paesi e dei lori sistemi di Welfare, ancora indeboliti e non del tutto risanatisi dagli effetti della crisi del 2008 (che ha reso necessario un netto ridimensionamento dei trasferimenti e degli aiuti economici in molti settori produttivi); l’alto livello dei debiti in crescita nelle imprese delle economie avanzate; infine, l’enorme crescita dei titoli, privati e pubblici, e il timore delle scoppio di bolle speculative[4]. Proprio la crisi del Covid-19 ha innescato lo scoppio della bolla finanziaria cresciuta nell’ultimo decennio. Le valanghe di vendite in Borsa nelle ultime settimane, infatti, ha dimostrato ai soggetti economici che la liquidità disponibile è risultata insufficiente rispetto a quella richiesta dai venditori per la liquidazione degli assets. Ergo, lo scoppio della bolla speculativa e le misure di contenimento non stanno facendo altro che trasformare i rischi potenziali soprariportati in realtà: il Covid-19 è stata la fiamma che ha incendiato la situazione economica precaria mondiale e italiana.

Per ripagare i creditori, tutti i beni della Lehman Brothers (quarta banca d’affari degli USA) andarono all’asta, inclusa l’insegna (Fonte: SmartMoney – StartupItalia).

Un’altra causa che acuirà questa recessione riguarderà, in alcuni Paesi, il problema dell’alto indebitamento pubblico rispetto al PIL[5], già aumentato durante la crisi del 2008. Del resto, un aumento dei disoccupati, dei cassintegrati e dei fallimenti d’impresa porta gli Stati a impiegare più risorse nel Welfare, costringendoli a indebitarsi sempre di più. Ne risentono anche gli enti previdenziali: un sistema pensionistico a ripartizione già in crisi come quello italiano[6], dove i lavoratori attuali versano i contributi per il pagamento delle prestazioni ai pensionati nello stesso momento, può trovarsi in un’ulteriore difficoltà.

La crisi dei debiti sovrani è un copione già visto e rivisto in passato: se l’Italia non è in grado di ripagare i propri debiti, gli acquirenti dei titoli di Stato perderanno parte o tutto quanto è loro dovuto. Di conseguenza, se lo Stato non è in grado di ripagare il debito, a farne le spese saranno due volte i cittadini italiani: in primis come risparmiatori, e poi come contribuenti[7]. Infatti, se uno Stato non paga i propri debiti perde l’accesso ai mercati. In poche parole, è difficile trovare un nuovo creditore, e chi lo fa richiede un interesse molto elevato (quindi aumento dello spread). Per questa ragione, è assai probabile che quello Stato si trovi a mettere in atto politiche di austerity come una drastica riduzione della propria spesa pubblica (come il taglio degli stipendi degli impiegati pubblici piuttosto che tagli ai sussidi), oppure si trovi costretto ad alzare le tasse[8].

A seguito di quanto riportato sopra, cosa si può fare? Viene sicuramente difficile fare delle comparazioni con il passato, vista la diversità di variabili che interessano l’epidemia e il sistema economico-sociale odierno. Detto ciò, i principali strumenti usati nel passato e applicabili anche nel presente per iniettare grande liquidità nel mercato privato sono essenzialmente due: la politica monetaria espansiva, usata prevalentemente durante gli anni della crisi del 2008; la politica fiscale espansiva, usata soprattutto nel New Deal, nel secondo dopoguerra e pochissimo negli anni della Grande Recessione, per via della crisi dei debiti sovrani. In questo caso, le politiche monetarie furono accompagnate da misure fiscali restrittive che prevedevano addirittura un taglio della spesa pubblica al fine di ridurre il deficit: la cosiddetta Austerity.

Per chi non fosse esperto nel settore, una politica monetaria espansiva può consistere nell’acquisizione, da parte della Banca Centrale, dei titoli di Stato (è l’esempio del Quantitative Easing del 2015 o degli Eurobond), o nella diminuzione dei tassi di interesse con l’intento di abbassare il costo dei prestiti. Quando il prestito è a buon mercato, le imprese creano più debito per investire in assunzioni ed espansione, i consumatori possono fare più acquisti a lungo termine con credito a basso costo, mentre i risparmiatori hanno più incentivi a investire i propri risparmi in azioni. Talvolta, lo Stato può anche farsi garante sui prestiti concessi dagli istituti di credito ai soggetti privati (quindi non si tratta di trasferimenti a fondo perduto), come nel caso del Dl Liquidità approvato una settimana fa dal Governo Conte II.

Le politiche fiscali espansive consistono invece in un aumento della spesa pubblica e dei trasferimenti, oppure in una diminuzione del carico fiscale. Trattandosi di manovre che potrebbero far esplodere il debito pubblico, di solito si ricorre a fondi nazionali e internazionali ordinari dando in cambio speciali garanzie (è il caso del MES nella UE), oppure creati ad hoc (come il recente Recovery Fund), alla vendita di assets pubblici (c.d. privatizzazioni) e, addirittura, a prelievi forzosi sui c/c dei cittadini come accadde nel 1992 (Governo Amato I) durante il collasso della Lira.

Questi interventi di politica economica devono essere efficaci ed efficienti: il passato insegna che iniettare meno liquidità di quanto il sistema economico abbia bisogno potrebbe solo risolvere parzialmente i vari problemi, mentre ritardi e aspetti burocratici potrebbero aggravare la situazione esistente.

Non va dimenticato, infine, che più un’auto viene lasciata per lungo tempo in sosta, più questa farà difficoltà a partire. In alcuni casi, se il periodo in questione è piuttosto lungo, la macchina potrebbe non ripartire più. Analogo discorso vale per l’economia: per molti studiosi, anche con un’emergenza sanitaria in atto occorre ripartire con prudenza e in sicurezza, perché non si possono fermare gli ingranaggi economici a tempo illimitato[9]. Prima o poi saremmo costretti a riaprire tutto, e potremmo trovarci di fronte a una situazione anche peggiore. Inoltre, l’introduzione di un vaccino o di una cura può richiedere anni e quindi, secondo molti virologi, ci ritroveremo a convivere con il Covid-19 ancora per molto tempo: del resto la storia insegna che le epidemie si esauriscono tendenzialmente nel corso degli anni, e non in poche settimane.

L’enorme tempesta economica che è arrivata non ha uguali nella storia: le cause endogene ed esogene che l’hanno generata costringeranno Stati, imprese e cittadini a impiegare tutte le risorse necessarie per garantirsi la sopravvivenza. La sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, la restrizione delle libertà imposta dalle misure di contenimento del Covid-19, la logorante attesa per un futuro imprevedibile e una nuova crisi economica all’orizzonte, potrebbero far esplodere una bomba di rabbia e disperazione: dalla corretta gestione delle politiche economiche ne risulterà la tenuta degli Stati.

Del resto la storia insegna che i forti mutamenti economici sono drammaticamente alla vigilia delle rivoluzioni scientifiche e sociali. Queste hanno siano una componente distruttiva che creativa: starà a noi decidere in che proporzioni.

Simone Bravo

La Minerva

Classificazione: 5 su 5.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Roger Farmer, Macroeconomia, McGraw-Hill, p. 286.

[2] Le previsioni per l’Italia. Quali condizioni per la tenuta ed il rilancio dell’economia? Confindustria, 31 marzo 2020. Secondo Confindustria l’Italia potrebbe perdere fino al 10% del PIL.

[3] L’acronimo PIIGS viene utilizzato per riferirsi ad alcuni Paesi dell’Unione europea, in particolare Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, accomunati da situazioni finanziarie non virtuose e deficitarie

[4] Roberto Petrini, Una nuova crisi finanziaria è all’orizzonte: i sei campanelli d’allarme del Fondo Monetario, La Repubblica, 16 ottobre 2019.

[5] Qualsiasi analogia tra il rapporto debito pubblico/PIL giapponese (250%) e italiano (134,8%) è da escludersi. L’articolo seguente ne illustra le ragioni: Veronica De Romanis, Perché è sbagliato continuare a dire “Facciamo come il Giappone”, Il Foglio, 2 aprile 2019.

[6] Marlangela Tessa, INPS: in calo il rosso, giù a 6,38 miliardi nel 2020, Wall Street Italia, 2 gennaio 2020.

[7] M. Barbero, Il debito pubblico detta legge, Istituto Bruno Leoni, 9 luglio 2018.

[8] Ibidem.

[9] Maria Silvia Sacchi, Confindustria Moda: 5 proposte per riaprire le fabbriche in sicurezza, Corriere.it, 4 aprile 2020.

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