IL NODO AFGHANO NEGLI ANNI DELLA PRESIDENZA OBAMA
Il momento chiave per l’evoluzione della politica estera statunitense fu l’approdo di Barack Obama alla Casa Bianca. Sebbene avesse autorizzato, nel periodo compreso tra il febbraio del 2009 e il dicembre successivo, l’invio di altri 30.000 soldati per coadiuvare i reparti già presenti in Afghanistan, nel dicembre del 2010 il presidente americano avrebbe annunciato i piani per un graduale disimpegno dal teatro bellico e il trasferimento dei compiti operativi alle truppe di Kabul. Alla base di una simile svolta figurava una moltitudine di concause: l’esautorazione del generale Stanley McCrystal, comandante in capo dell’International Security Assistance Force (ISAF) e autore di commenti inappropriati circa la conduzione del conflitto da parte del Pentagono; il temporaneo miglioramento del quadro strategico; il bisogno di focalizzarsi sul fronte interno a causa delle difficoltà legate alla crisi finanziaria; la convinzione che i talebani non costituissero più una minaccia credibile per la sicurezza nazionale. Particolarmente indicativo risulta essere l’articolo comparso il 22 giugno 2011 sulle pagine del New York Times, all’interno del quale è possibile leggere quanto segue:
Il presidente Obama ha annunciato i piani per ritirare 10.000 soldati dall’Afghanistan entro la fine di quest’anno [2011, n.d.a]. I restanti 20.000 del “picco” del 2009 lascerebbero il Paese a partire dalla prossima estate, per un totale di circa un terzo delle 100.000 truppe ivi stanziate. Ha affermato che il disimpegno continuerà “a un ritmo costante” finché gli Stati Uniti non avranno delegato la sicurezza alle autorità afghane, nel 2014.
[…] Pur giustificando il coinvolgimento decennale della Nazione, ha anche parlato di “concludere il conflitto in modo responsabile”, avvertendo dei pericoli di una sovraestensione delle forze armate inviando grandi numeri di soldati in combattimento. Ha poi ammesso che permangono enormi sfide prima di concludere una guerra che è costata centinaia di miliardi di dollari, oltre alle vite di 1.500 americani. […] “Stiamo cominciando questo disimpegno da una posizione di forza”, ha specificato il signor Obama. “Al Qaeda adesso è sotto una pressione maggiore che mai dai tempi dell’11 settembre”. Ha detto che l’intensa campagna di attacchi coi droni, così come le altre operazioni segrete in Pakistan, hanno paralizzato la rete originaria di Al Qaeda nella regione, uccidendone i capi o bloccandoli lungo il confine tra il Pakistan e l’Afghanistan. Dei 30 leader identificati dall’intelligence americana, 20 sono stati uccisi nello scorso anno e mezzo, hanno detto dei funzionari amministrativi.
Ma il ritiro di questo picco di forze entro la fine della prossima estate cambierà significativamente la maniera con cui gli Stati Uniti condurranno la guerra in Afghanistan, sostengono gli analisti, suggerendo che l’amministrazione potrebbe aver concluso di non poter più realizzare le sue ambizioni nell’area.[1]
Cooper H., Landler M., «Obama will speed pullout from War in Afghanistan», June 22, 2011.
LA NEW SILK ROAD STATUNITENSE
Propedeutica al raggiungimento di questi obiettivi avrebbe dovuto essere l’entrata in vigore, nella giornata del 2 maggio 2012, dell’Accordo per la partnership strategica afghano-statunitense, ossia di quel documento che si proponeva di definire le mansioni spettanti agli USA negli ambiti dell’assistenza, della governance, dello sviluppo socio-economico, del consolidamento delle istituzioni e della ristrutturazione delle forze di sicurezza. È bene infatti sottolineare come tali misure intendessero costituire, nelle intenzioni originarie dei loro promotori, il primo passo verso la realizzazione di un progetto conosciuto attraverso la formula suggestiva di “Nuova via della seta“. Annunciata nel corso dell’anno precedente al fine di incoraggiare l’integrazione economica e infrastrutturale tra gli Stati centro-asiatici, la New Silk Road nasceva non soltanto dal bisogno di mantenere la stabilità in un’area flagellata da oltre un trentennio di guerre civili, ma anche dall’impellenza di trasformarla in una cerniera tra l’Europa e l’Estremo Oriente. Nell’articolo Building the New Silk Road, il vice-editore per il Council on Foreign Relations James McBride commentava:
L’originaria Via della Seta nacque durante l’espansione verso ovest della dinastia cinese Han (206 a.C–220 d.C), che ha forgiato delle reti commerciali attraverso quelli che oggi sono i Paesi centro asiatici del Kyrgyzstan, del Tajikistan, del Kazakhstan, dell’Uzbekistan, del Turkmenistan e dell’Afghanistan, nonché dell’odierno Pakistan e dell’India a sud. Alla fine queste rotte si snodavano per migliaia di chilometri fino all’Europa.
[…] Oggigiorno, gli Stati dell’Asia Centrale sono economicamente isolati, con un commercio interregionale che ammonta appena al 6.2% di tutto il commercio transfrontaliero. Per giunta dipendono in misura significativa dalla Russia, soprattutto per il trasferimento di denaro, che nel 2014 è sceso del 15% a causa dei problemi economici di Mosca. […] Per gli USA, la Nuova Via della Seta consiste in una serie di progetti d’investimento congiunti e blocchi di commercio regionale, i quali hanno il potenziale di portare crescita economica e stabilità in Asia Centrale. In seguito all’invio di altre 30.000 truppe in Afghanistan, nel 2009, mossa con cui l’amministrazione del presidente Barack Obama sperava di porre le basi per un completo ritiro qualche anno dopo, Washington ha cominciato a definire una strategia per supportare queste iniziative tramite strumenti diplomatici.
Questi piani rimarcavano la necessità che l’Afghanistan edificasse un’economia indipendente dal sussidio straniero.
McBride J., «Building the New Silk Road», Council on Foreign Relations, The New Geopolitics of China, India, and Pakistan, May 22, 2015.
Un altro pilastro portante della strategia perseguita da Washington era quello rappresentato dalla creazione di un mercato regionale per l’energia, bene prezioso la cui richiesta a opera di diverse realtà emergenti quali l’India, gli Stati del Sud-est asiatico e il Pakistan poteva essere soddisfatta grazie agli impianti idroelettrici e alle riserve di gas del Kazakistan e del Turkmenistan. Stando infatti alle dichiarazioni rilasciate dal vicesegretario di Stato William Burns alla Asia Society di New York, il 23 settembre 2014:
Questa regione è critica per la sicurezza globale. È un’area ricca di opportunità economiche e potenziale umano. Il nostro obiettivo condiviso non è soppiantare le vivaci connessioni tra Est e Ovest, ma di integrarle e complementarle con legami altrettanto vivaci tra Nord e Sud. Riteniamo che a regione più interconnessa possa svolgere il ruolo di motore per lo sviluppo economico e di ancora per la pace e la sicurezza.
Questa è la visione dietro la Nuova Via della Seta. E questo è ciò che ci riunisce qui, oggi. […] Supporteremo l’Afghanistan e il suo nuovo governo, ma capiamo che le sue sorti rimangono legate ai suoi vicini, così come quelle dei suoi vicini a quelle dell’Afghanistan.
Burns W.J., “Deputy Secretary of State William J. Burns on Economic Connectivity in Central Asia”, Asia Society Policy Institute, September 23, 2014.
Tra i disegni più ambiziosi coltivati in questo periodo occorre citare il gasdotto TAPI, un’opera dal valore complessivo di $10 miliardi con la quale il governo turkmeno intendeva diversificare il proprio mercato degli idrocarburi, invero completamente assorbito dalla Repubblica Popolare Cinese. Ad esso si aggiungevano i progetti da $1.7 miliardi per la realizzazione del nuovo comparto energetico afghano, quelli da $2 miliardi riservati alla costruzione di circa 3.000 chilometri di strade e, infine, gli investimenti da $62 miliardi per riorganizzarne le forze di sicurezza. Non meno importanti risultavano essere le iniziative sul piano diplomatico come l’Almaty Consensus, un programma per la cooperazione regionale sviluppato a partire del 2011 con l’obiettivo di agevolare l’ingresso di Kabul nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO); l’Accordo per il trasporto transfrontaliero (CBTA), raggiunto nell’agosto successivo fra i ministri plenipotenziari dell’Afghanistan, del Tagikistan e del Kirghizistan; il Central Asia-South Asia power project (CASA-1000), una rete elettrica atta a esportare l’energia in eccesso verso le aree limitrofe; e l’Accordo sul transito commerciale (APTTA), ratificato dai governi di Kabul e di Islamabad nell’ottobre del 2010.
A decretare la conclusione prematura dell'”Iniziativa per la nuova via della seta” contribuirono diversi fattori: l’insediamento di John Kerry presso il Dipartimento di Stato; gli imprevedibili sviluppi della War on Terror (oggetto sin dal 2015 di una vigorosa recrudescenza a causa delle controffensive sferrate dai Talebani); la nascita di cellule terroristiche collegate al sedicente Stato Islamico (ISIL), in grado di assumere il controllo della provincia di Khorasan; l’inabilità dell’esercito nazionale afghano nel far fronte a tali minacce; la concorrenza posta in essere da Pechino nello scacchiere eurasiatico.
LA “BELT AND ROAD INITIATIVE”: LA VIA DELLA SETA DI XI JINPING
A tal proposito è opportuno sottolineare come il Segretario Generale del Partito Comunista Xi Jinping, promotore di una politica estera più aggressiva volta a espandere la sfera d’influenza cinese ben oltre i confini patri, avesse lanciato la propria visione della New Silk Road basandola su una duplice strategia: la realizzazione di infrastrutture terrestri idonee a collegare tra loro l’Europa, l’Asia e l’Africa, meglio conosciuta con il nome di “Silk Road Economic Belt“ (SRB); la conseguente espansione delle vie marittime attraverso l’Oceano Indiano e il Golfo Persico, la “Maritime Silk Road“. Fulcro dell’intera operazione risulta essere il programma di investimenti rivolto alle ex repubbliche sovietiche che, in virtù della loro posizione strategica, sono state interessate da un assiduo corteggiamento diplomatico da parte della Federazione Russa e degli Stati Uniti d’America. Le premesse per un progetto così ambizioso affondavano invece nel settembre del 2013, quando l’allora neopresidente della RPC affermò, in occasione di un discorso tenuto all’Università Nazarbayev di Astana, di voler approfondire la partnership commerciale con le realtà confinanti in modo da promuovere una crescita bilanciata:
Per rafforzare i legami diplomatici, approfondire la cooperazione ed espandere l’area di sviluppo nella regione eurasiatica, dovremmo intraprendere un approccio innovativo e costruire congiuntamente una “cintura economica lungo la Via della Seta”. Questo sarà un grande impegno che beneficerà i popoli e tutti i Paesi sulla Via. Per trasformarla in realtà, dobbiamo incominciare a lavorare in aree singole e unirle nel corso del tempo per coprire l’intera regione. In primo luogo, dobbiamo migliorare le politiche comunicative. Gli Stati dovrebbero discutere sulle strategie di sviluppo e sulla risposta alle politiche, realizzando piani e misure per promuovere la cooperazione regionale attraverso la consultazione nell’ottica di ricercare un’intesa, pur nutrendo delle riserve, e dare la “luce verde” politica e legale per l’’integrazione.
Successivamente, dobbiamo migliorare la connettività stradale. La OCS [Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, n.d.a] sta lavorando su un accordo per la facilitazione dei trasporti. Se firmato e implementato al più presto, aprirà una grande arteria logistica che connetterà il Pacifico al Mar Baltico. Sulla base di questo, discuteremo attivamente della maniera migliore per potenziare le infrastrutture per il trasporto transfrontaliero, lavorando in direzione di una rete che connetterà l’Asia orientale, quella occidentale e quella meridionale per agevolare lo sviluppo economico e i viaggi nella regione.
Terzo, dobbiamo promuovere il libero commercio. La “cintura economica lungo la Via della Seta” è abitata da quasi tre miliardi di persone, e rappresenta il maggior mercato al mondo con un potenziale senza precedenti. I margini per il commercio e la cooperazione negli investimenti tra i Paesi rilevanti è immenso. Dovremmo discutere un vero accordo per il commercio e la facilitazione degli investimenti, rimuovendo barriere doganali, riducendo i costi, aumentando la velocità e la qualità dei flussi commerciali per conseguire un progresso vantaggioso per tutti.
Quarto, dobbiamo incrementare la circolazione monetaria. La Cina e la Russia hanno già una solida partnership nella regolamentazione del commercio in valute locali, maturando risultati gratificanti e molta esperienza. Non c’è ragione per non condividere questa buona prassi con altri della regione. Se essa realizzerà una convertibilità e una regolamentazione monetaria tramite conti correnti e di capitale, abbasserà in modo significativo i costi di circolazione, aumentando la nostra abilità nel combattere i rischi economici e rendendo la nostra regione più competitiva nel mondo.
Quinto, bisogna accrescere la comprensione tra i nostri popoli. L’amicizia tra le genti racchiude il segreto delle buone relazioni tra gli Stati.
Jinping X., «Promote Friendship Between Our People and Work Together to Build a Bright Future», Nazarbayev University, Astana, September 09, 2013.
Perché i disegni di Xi Jingping si traducessero sul piano concreto fu sufficiente attendere l’anno successivo, quando la Repubblica Popolare Cinese stipulò diversi accordi commerciali con i governi kazako, uzbeko e kirghiso per un valore complessivo di $48 miliardi, seguiti nel novembre del 2014 dalla creazione di un fondo da $40 miliardi per la “Nuova via della seta“. Nell’ottobre precedente si era invece provveduto alla fondazione della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (AIIB), un’istituzione finanziaria per lo sviluppo multilaterale avente una membershipdi 87 Paesi (molti dei quali appartenenti al Fondo Monetario Internazionale) e un capitale di partenza di $100 miliardi. Alla stregua di quanto avvenuto per la New Silk Road statunitense, il successo delle iniziative finanziate da Pechino dipenderà da una moltitudine di variabili connesse alle dimensioni locale e internazionale: finora la principale insidia è stata quella rappresentata dalle proteste popolari nel Myanmar (2014), in grado di bloccare lavori per la linea ferroviaria tra le città di Kyaukpyu e di Kunming, nonché dai movimenti guerriglieri operativi nelle regioni del Sinkiang, del Belucistan e, ovviamente, nelle lande afghane.
TRUMP E L’AFGHANISTAN: PROVE TECNICHE DI DISIMPEGNO
Meno chiaro risulta essere invece il ruolo occupato dall’Afghanistan nell’agenda politica di Donald Trump, succeduto a Barack Obama al termine di una tornata elettorale scandita da polemiche e da inquietanti retroscena. In ottemperanza dell’ormai iconico slogan “America First”, il tycoon newyorkese ha infatti ribadito la propria volontà nell’imprimere una svolta non-interventista alla politica estera americana, espediente necessario a convogliare maggiori risorse economiche per il fabbisogno interno. A dispetto di tali premesse, il numero delle truppe dislocate in Asia Centrale per ricoprire gli incarichi previsti dall’operazione Resolute Support (nello specifico l’addestramento del personale militare e la riorganizzazione delle forze di sicurezza afghane) è passato dalle 8.500 unità del dicembre 2016 alle 14.000 del gennaio 2018. Altrettanto controversa è stata la decisione di non prendere parte, almeno in un primo momento, ai negoziati multilaterali apertisi a Mosca il 9 novembre 2018, punto di arrivo di una lunga serie di contatti informali tra i rappresentanti dei governi afghano, russo, statunitense e dei talebani.
Con una mossa a sorpresa destinata ad avere pesanti ripercussioni sulla stabilità del proprio entourage, il 21 dicembre 2018, il Presidente USA ha infine reso nota l’intenzione di voler ritirare dal teatro bellico un numero significativo di combattenti (circa 7.000 secondo le indiscrezioni riportate dal New York Times)[1], conditio sine qua non per porre le condizioni favorevoli a un dialogo costruttivo con i fondamentalisti islamici. L’insieme di questi fattori sembrerebbe dunque suggerire l’inesistenza di una strategia coerente all’interno dell’amministrazione Trump, impegnata nel difficile compito di armonizzare il ruolo di “poliziotto del mondo” con le promesse fatte nel corso della campagna elettorale. In tal caso sarebbe lecito ipotizzare come il bisogno di riottenere consensi dopo gli episodi controversi del Russiagate, le accuse a sfondo sessuale emerse nel gennaio del 2018 e gli altri scandali che hanno investito personalità legate al Partito Repubblicano potrebbero spingere il magnate statunitense a perseguire con maggior impegno quelle iniziative che gli hanno assicurato l’appoggio degli elettori, prima fra tutte la riduzione degli oneri militari contratti oltreoceano. Se questo disegno riuscisse a compiersi, prospettiva non troppo remota vista la maggioranza goduta al Senato dai “Blu”, l’inevitabile vuoto di potere lasciato in Afghanistan potrebbe essere rapidamente colmato dagli altri due key players operativi nell’area: la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa.
Niccolò Meta
La Minerva
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Gibbons-Neff T., Mashal M., «U.S. to Withdraw About 7,000 Troops from Afghanistan, Officials Say.», New York Times, December 20, 2018.